Trieste avanguardia d’Europa 1/2

narodni domSpesso capita che ci si chieda dove è situato il fantomatico centro dell’Europa. Nella maggior parte dei casi in cui questa domanda viene posta, l’uomo della strada pensa quasi immediatamente a metropoli mancate e con una storia blasonata alle spalle come Budapest o Vienna. Oppure può apparire spontaneo volgere lo sguardo più a nord o perfino ad oriente ed azzardare ipotesi alternative, termine quanto mai di moda, come Praga, Timisoara, Bratislava o, nella foga del momento, a Cracovia. Ebbene il sottoscritto non la pensa così. Sarà che questa è la sua città natale, sarà che fin da piccolo mi si sono rintronate le orecchie a furia di sentire la mitica definizione di ‘primo porto dell’Impero’, ma in tutta modestia ritengo che il centro di gravità permanente del sempre più Vecchio Continente si trovi a Trieste.

Provate solo a tracciare un cerchio ipotetico, posizionando la punta del vostro compasso immaginario sulla piccola città adriatica e facendolo girare attorno con un raggio importante. Ebbene noterete che il cerchio non comprenderà al suo interno soltanto le terre dell’Est, appartenute a pressoché tutti gli Imperi di ieri ed ora giovani nazioni inquiete, il che sarebbe anche ovvio vista la locazione geografica di Trieste, bensì esso lambirebbe anche le capitali dell’Europa Occidentale sempre più ignare del proprio passato da cancellare comunque a tutti i costi, senza parlare poi delle coste scandinave in cui sbarcherebbe il vostro compasso. Allargando, ma non di molto, il cerchio si arriverebbe senza problemi a Londra e a Lisbona e al tempo stesso si avrebbe il tempo di fare una toccata e fuga a Kyev, dove da anni si favoleggia di un Corridoio ferroviario che sarebbe dovuto partire dalla capitale lusitana appena citata sopra, e la sua sorella nemica Mosca, per gli ortodossi russi la cosiddetta Terza Roma rientrata da poco nello scacchiere politico. Cosa vogliamo dire con queste elucubrazioni intellettuali da fine settimana? Tutto e niente. Si potrebbe lasciar cadere la cosa con un’alzata di spalle, come sono convinto che quasi tutti i fantomatici millennials farebbero, oppure si potrebbe prendere cinque minuti del proprio tempo per chiedersi che segnali ci manderà la Capitale Geografica d’Europa per i prossimi decenni. Detto altrimenti, lo scopo dichiarato di questo articolo è quello di convincere il lettore che Trieste è sempre stata un’anticipatrice di fenomeni politici che da lì a qualche anno avrebbero interessato il resto d’Italia e anche d’Europa.

Mi rendo conto che un conto è amare (o odiare) la propria città natale, ma adesso sto esagerando. Di sicuro ho perso l’equilibrio interiore quando mi sono messo nella bizzarra posizione di considerare Trieste un’avanguardia d’Europa. Come si può difatti immaginare che una piccola città italiana di provincia da 200mila abitanti e per di più mal collegata col resto del paese e i suoi vicini stranieri, possa rappresentare un faro premonitore in grado di farci vedere nel futuro? Inoltre sarebbe perlomeno una cortesia se il Vostro Vate si degnasse di definire il colore delle tinte che lui intende rappresentare per il futuro di tutti noi europei, se bianche e leggiadre o decisamente fosche che siano. Innanzitutto chiariamo i motivi per i quali io ritengo essere Trieste, la mia città natale nella quale non vivo più da quattro anni, come un’avanguardia e se vogliamo un laboratorio sperimentale dove incubare idee (ed anche ideologie) da esportare nel resto del Continente. Se perfino nel discorso colloquiale capita spesso di sentire che la storia è ‘magister vitae’, allora essa non può fare altro che aiutarci in questa analisi. Partiamo dal periodo d’oro della città adriatica. Esso si situa nell’Ottocento. In quel periodo il porto adriatico conobbe una crescita incredibile, pari forse solo a quella vissuta dai porti inglesi ed irlandesi (quindi sempre britannici) grazie alla Rivoluzione Industriale. Da un piccolo villaggio situato ai limiti nordici del Mar Adriatico popolato da malsane saline, in pochi decenni Trieste venne trasformata a forza di editti calati dall’alto dell’autorità asburgica in un porto nevralgico e fondamentale per i traffici dell’Impero. In pochi anni accorsero nella città gente di tutte le risme: in prima fila contadini sloveni e croati provenienti dalle campagne desiderosi di imborghesirsi ed arricchirsi, burocrati austriaci inviati per amministrare razionalmente la città, mercanti greci, professionisti e prestatori di denaro ebrei che in un periodo di crescente antisemitismo riuscirono a trovare il proprio buen retiro per aumentare i propri affari, per non parlare poi degli stessi italiani del Regno appena nato, per questo definiti in maniera dispregiativa dai triestini nativi regnicoli, e poi armeni, ovviamente inglesi, perfino turchi e via dicendo. Insomma anche all’epoca Trieste si era posta, anzi per meglio dire era stata posta dalla sua fortunata posizione geografica e da una serie di intelligenti misure legislative, all’avanguardia di quel sistema capitalistico che stava prendendo sempre più il largo e che avrebbe (ahimè) dominato il mondo fino ai giorni nostri. Da queste poche righe si dovrebbe evincere, almeno lo spero, come tendenze culturali così attuali come quella del cosiddetto multiculturalismo così elogiato o la creazione delle mitiche ‘start up’ di americana provenienza non sono poi dei fenomeni così innovativi come si può pensare, anzi.

Basti poi aggiungere che misure autoritarie, ma intelligenti e necessarie, come la creazione del Punto Franco e la relativa abolizione dei dazi, e il sotterramento delle saline per lasciar posto al Borgo Teresiano permisero alla città di annoverarsi come il secondo Porto dell’Impero. Ancora oggi, in una parentesi storica caratterizzata dal declino che descriverò più avanti, quest’ultima storica nomea di secondo porto del Mediterraneo è ancora ampiamente conosciuta dal triestino della strada, perfino dai più giovani. Tuttavia Trieste, oltre ad essere stata una delle punte di diamante del capitalismo europeo, fu altresì il laboratorio di altre tendenze, ben più nocive e che nell’arco di meno di un secolo avrebbero distrutto l’Europa. Fin da quel momento si venne a delineare, a mio parere, una contrapposizione, anzi direi una vera e propria nevrosi, valida ancora oggi tra la città ufficiale così orgogliosa delle proprie ricchezze ma al tempo stesso provinciale e le proprie forze oscure, nascoste sotto il tappetino di ingresso ma pronte ad uscire e a fagocitare anche i cervelli all’apparenza più razionali.

Stiamo ovviamente parlando della comparsa dei nazionalismi, a Trieste compressi in un’unica pentola a pressione. Starò esagerando ma ritengo che in nessuna altra città europea a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento si siano create in maniera così esemplare le basi per un conflitto così sanguinoso. Trieste quindi come laboratorio sperimentale delle violenze a noi tutti note? Eppure facendo oggi stesso una camminata di qualche ora per il centro, è possibile osservare visivamente dei simboli presenti anche cento e più anni fa e che sembrerebbero smontare questo cliché. Come infatti non rimanere sorpresi dall’ubicazione a meno di quattrocento metri di distanza di una chiesa cattolica di stile neoclassico, di una splendida rappresentanza della fede serbo – ortodossa ed infine di una chiesa greco – ortodossa perfettamente incastonata nelle Rive tra i palazzi del commercio e degli affari. Un osservatore curioso e che abbia voglia di fare una camminata più lunga potrà poi raggiungere una delle più grandi sinagoghe d’Europa e non potrà non notare che essa si trova a nemmeno un minuto di camminata dallo storico Caffè San Marco, tutt’ora esistente, e che all’epoca era il massimo ritrovo degli intellettuali e dei nazionalisti italiani. Ho citato solo i primi luoghi di culto che mi sono venuti in mente ma la lista di piccole chiese anglicane, perfino armene, ed altri circoli religiosi potrebbe essere ben più lunga. Eppure bisognerebbe sapere che l’istituzione di questi edifici, che ancora oggi sembrano confermare il luogo comune di una città tollerante e cosmopolita, non furono incentivati dal governo asburgico ma vennero invece finanziati dalle locali comunità etniche che componevano il tessuto cittadino, le quali essendo riuscite ad accumulare in poco tempo capitali non indifferenti pensarono bene di edificare i propri luoghi di ritrovo per incontrarsi appunto, in secondo luogo per parlare d’affari e poi per trovarsi a proprio agio con persone delle medesima cultura e parlanti la propria lingua. Ogni volta invece che una comunità aveva tentato di persuadere il governo centrale di Vienna a concedere l’istituzione di una propria università, o perfino scuole, si era trovata di fronte ad un nein deciso. Pensiamo per esempio ai triestini parlanti italiano che non riuscirono mai ad ottenere una propria università.

Fin dall’Ottocento abbiamo perciò un livello ufficiale basato in verità sul più classico motto del ‘dividi et impera’, mentre la realtà dei fatti si muoveva su altre faglie sotterranee. Nel 1882 il clima idilliaco venne rotto dall’impiccagione di un giovane studente triestino di lingua italiana, tale Gugliemo Oberdan, il quale era stato condannato ad impiccagione per aver progettato un attentato a base di bombe contro l’imperatore Francesco Giuseppe, in visita alla città. E’ la prima grande scossa di un terremoto destinato a non fermarsi più, le cui scosse di assestamento durano fino ad oggi. L’impiccagione di Oberdan fu anche il primo segnale per i nazionalisti italiani nel voler alzare il tiro e chiedere l’annessione di Trieste all’Italia. L’aspetto curioso, e direi anche grottesco ma non affatto casuale, è che il vero cognome di colui che è stato definito il primo martire irredentista italiano era Oberdank. Infatti il giovane studente era sì nato a Trieste ma sua madre era slovena; pertanto il cognome originario era Oberdank dal quale in seguito il nazionalista italiano decise di spulciare la k per darsi un tono più purista. Questa tragica storia rappresenta un’altra innovazione tragica, che trovò appunto a Trieste la propria apripista. La storia dei nazionalismi comprende sempre la figura di quelli che lo scrittore triestino di lingua e cultura slovena Boris Pahor definisce i ‘giannizzeri moderni’. Per essere precisi, per giannizzeri moderni possiamo intendere quei giovani outsider provenienti da altri paesi e realtà, spesso provinciali, che non appena si trovano a vivere in un nuovo ambiente cittadino ben più complesso del proprio milieu d’origine decidono seduta stante di “integrarsi” a tutti i costi. Per raggiungere questo loro obiettivo di assimilare la nuova cultura e rigettare quella vecchia, questi nuovi immigrati (oggi verrebbero definiti di seconda generazione) vogliono dimostrare di essere più nazionalizzati degli stessi nativi. Lo stesso Oberdan aveva voluto dimostrarlo fino all’estremo sacrificio ma oggi sappiamo che gli stessi irredentisti di entrambe le parti avevano, come logico che fosse, origini tutt’altro che pure. Per citare un altro scrittore triestino di spessore come Claudio Magris, possiamo ricordare come i nazionalisti croati ustascia durante le loro prime riunioni a Spalato parlassero spesso l’italiano, inframmezzato da parole di dialetto veneto che è sempre stata la vera lingua franca commerciale dell’Adriatico.

Aprendo una breve parentesi di vita tuttora vissuta in Germania, la vicenda di Oberdan e di altri giannizzeri moderni che cercano in tutti i modi, anche in quelli più grotteschi e violenti, mi ricorda la figura di molti immigrati da me conosciuti in Germania che spesso si dimostrano, o almeno pretendono di dimostrare, di essere più tedeschi degli stessi tedeschi “puri” nel difendere il loro nuovo paese. Non parliamo più di attentati e sangue che scorre a fiumi per difendere un nuovo ideale, bensì di straordinari non pagati o di ore passate in ufficio senza che il capo lo avesse richiesto. Parliamo anche di nuovi tedeschi che prendono la cittadinanza e, quando si tratta di discutere di politica interna, dimostrano di avere ben più paraocchi degli stessi tedeschi e di essere ben più giustificativi nei confronti del governo rispetto agli stessi cittadini nati e cresciuti qui. D’altro canto un nuovo nazionalismo dei tedeschi di nuova generazione potrebbe forse spiegare come mai molti voti che hanno ingrossato le fila dell’Afd provengano da russi ed europei dell’Est che sono giunti in Germania negli anni ’90 e che nel frattempo hanno chiesto ed ottenuto la cittadinanza tedesca; questo cortocircuito tendente a dimostrare la propria integrazione a livelli grotteschi ed anche fastidiosi per gli stessi nativi non è tuttavia un fenomeno recente ed il caso di Oberdan(k) lo dimostra.

Tornando a Trieste, per comodità direi di accelerare leggermente. Dall’impiccagione di Oberdan allo scoppio della Prima Guerra Mondiale il passo è breve. Caso letterario emblematico di questa crisi di identità di molti giovani fu quello dello scrittore Scipio Slataper, il cui nome stesso già tradisce l’affannosa ricerca di un’identità italiana univoca. Il nome Scipio rimanda ad innumerevoli comandanti romani che guidarono le proprie legioni a colonizzare queste terre, mentre il cognome Slataper altro non è che un sostantivo sloveno composto il cui significato è penna d’oro. Da una crisi d’identità già presente sulla superficie, il giovane Scipio si trasferì per motivi di studio nella capitale culturale d’Italia, Firenze, anche se perfino lì gli rimase la sensazione, che poi avremmo ritrovato in altri giovani triestini sbalzati nel resto d’Italia, di essere diverso, di avere un qualcosa di barbaro nelle vene che non avrebbe potuto mai essere cancellato. Come molti scrittori dell’epoca, pensiamo solo a un Rilke che aveva soggiornato per anni nel vicino e selvaggio castello di Duino, Slataper rifuggì la città urbana di Trieste in quanto da lui stesso definita troppo commerciale ed affarista; si inerpicò sulle numerose e ripide strade di terra battuta per rifugiarsi nel Carso. I boschi di pini battuti dal vento impetuoso della Bora proveniente da est e le sterminate radure di pietra ruvida lo ispirarono a scrivere il suo grande e riuscito romanzo “Il mio Carso”, dove a romantiche descrizioni di una popolazione slava bucolica si intrecciano immersioni mentali in una natura ancora pura e toccata solo marginalmente dal progresso. Come curioso scherzo del destino, allo scoppio della Grande Guerra Scipio si arruolò come volontario per l’Italia e trovò la morte proprio sul suo amato Carso durante uno scontro col “nemico”. Ancora una volta Trieste si dimostra un’avanguardia proprio perché prima di altre realtà europee cade pateticamente il palco di tolleranza e multiculturalismo costruito in maniera artificiale dal potere costituito. I giovani triestini scapparono in Italia, quindi di fatto tradendo la Patria dove erano nati per abbracciarne una nuova, morirono come mosche e se anche tornarono non abbandonarono di certo la violenza. Agli incendi del giornale locale Il Piccolo (tuttora esistente) e di altri simboli dell’italianità di Trieste, come il Caffè San Marco appena citato sopra ed altri circoli culturali, appiccati dai bravi borghesi austriaci infuriati per il voltafaccia dell’Italia che aveva tradito l’alleanza e dichiarato guerra all’Austria nel maggio del ’15, ne seguì cinque anni dopo un altro ben più carico di conseguenze e quanto mai premonitore.

Proveniente da Firenze, guarda caso la città dove studiò il giovane Slataper, l’avvocato Francesco Giunta decise di dare un segnale alle minoranze slave che ancora vivevano nella città appena “liberata” dall’Italia. Il 13 luglio 1920 vennero devastati dalle camicie nere fasciste da lui guidate diversi negozi appartenuti a commercianti sloveni e sedi socialiste ma il vero episodio che segnò uno spartiacque nella convivenza tra le etnie fu l’incendio dell’edificio progettato da Max Fabiani e denominato Narodni Dom, tradotto in Casa dei Popoli, il quale conteneva al suo interno anche l’Hotel Balkan e che rappresentava il simbolo degli interessi culturali ed economici delle minoranze slave di Trieste. Non passi inosservato al lettore che questo episodio di violenza, definito dagli storici in seguito come “squadrismo di confine”, si verificò due anni prima della Marcia su Roma. Altro segno premonitore del disastro europeo: la cacciata di circa 20mila tedeschi ed austriaci dalla città. Questo esodo, uno dei primi di una lunga serie che attraversò il secolo breve, non venne mai studiato nelle scuole e licei triestini, figuriamoci in quelli italiani. Di esso non si sa praticamente nulla, se si eccettua l’interesse di qualche amante della storia. E’ un vero peccato perché si potrebbe venire a conoscenza che in mezzo alle migliaia di tedeschi cacciati dal nuovo padrone c’era anche un bambino di nome Odilo nato e cresciuto nel quartiere sloveno di San Giovanni, il cui cognome (tipicamente sloveno) Globocnik sarebbe stato conosciuto vent’anni dopo come uno dei maggiori organizzatori dei campi di sterminio in Polonia. Come se non bastasse, Trieste si pone ancora una volta in cima alle città foriere di innovazioni per la successiva italianizzazione forzata delle minoranze slovene e croate, le quali a loro volta furono probabilmente le prime minoranze in Europa ad organizzarsi in bande armate di resistenza contro il Fascismo al potere. Un’altra innovazione tutta triestina, che avrebbe potuto benissimo trovare un eco letterario negli articoli di Pasolini sull’Italia del boom degli anni ’60, fu anche la distruzione di vasti settori del centro storico medioevale attuata negli anni ’30 per lasciare spazio a discutibili palazzoni moderni bianchi avorio, tuttora presenti come la Questura (ex Casa del Fascio) e la nuova sede delle Generali, oppure per riscoprire segni dell’antica romanità come il Teatro Romano. Questo stupro architettonico, portato a termine ben 30 se non 40 anni prima rispetto a quello ben più pervasivo del boom capitalistico, è tuttora visibile ed ha lasciato dei vuoti che ancora adesso non si sa come colmare se non con dei parcheggi. La Trieste degli anni ’30 venne perciò eretta a simbolo e città – manifesto del Fascismo; al divieto di parlare la propria lingua per sloveni e croati si susseguì appunto un attivismo architettonico che aveva sollecitato gli appetiti degli investitori. La Trieste, anzi io direi il mondo passato dell’Impero austriaco doveva essere lasciato alle spalle e le tracce cancellate. Come sempre, sono gli intellettuali e gli scrittori a capire prima degli altri che il vento sta cambiando; James Joyce lasciò la città, che gli aveva ispirato Ulisse, già negli anni ’20 e si rifugiò nella neutrale Zurigo dove sarebbe morto. Italo Svevo, in verità un altro italianista mancato visto che all’anagrafe risultava come Ettore Schmidt, nel suo romanzo più famoso La Coscienza di Svevo aveva descritto e profetizzato a chiare lettere nelle ultime righe del libro il massacro di giovani menti e corpi che sarebbe stata la Grande Guerra, definendolo come la ‘deflagrazione universale’. Peccato non aver potuto leggere molti altri contributi sulla sua Trieste che già annaspava durante il Ventennio, ma un incidente automobilistico mortale – altra premonizione delle odierne stragi giornaliere sulle strade trafficate – avvenuto nel 1928 gli fermò la mano per sempre. Un ultimo intellettuale, ovviamente rimosso dagli studi accademici italiani di oggi, fu il commercialista Fabio Cusin il quale in seguito si interessò di storia e provò anche lui, come Slataper, a tentare la fortuna accademica a Firenze. Da irredentista e patriottico – italiano qual’era, nel corso degli anni e degli innumerevoli libri da lui letti diventò man mano sempre più critico nei confronti della narrativa ufficiale sul Risorgimento e l’Unità d’Italia. Fu probabilmente il primo intellettuale italiano dai tempi di Cattaneo a proporre un’Italia federalista contrapposta all’ottuso centralismo romano, fino poi a passare dall’altra parte della barricata e a proporre un’indipendenza totale per il piccolo Stato di Trieste. Le sue posizioni libere ed anticonformiste non vennero di sicuro ben viste durante il Fascismo e difatti Cusin ebbe enormi difficoltà a trovare una cattedra, senza contare il disprezzo e il voluto silenzio che i suoi colleghi amanti del Risorgimento gli riservarono. Il suo libro più significativo fu L’antistoria d’Italia, che già dal titolo dice molto. Chissà se l’ideologo della prima Lega Nord degli anni ’90 Gianfranco Miglio lesse i suoi scritti.

Ad ogni modo intelligenti ma minoritarie voci non riuscirono a rompere, ieri come oggi, il muro di conformismo che ancora ammorba la penisola. Un altro triste primato arrise a Trieste nel 1938, dopo che Mussolini stesso in persona proclamò di fronte ad una Piazza Unità d’Italia gremita di folla oceanica ed entusiasta le Leggi Razziali contro gli ebrei. Ben poche persone all’epoca informate dei fatti sapevano che a nemmeno un chilometro di distanza dalla piazza sul mare, in Via del Monte per essere esatti, la sezione locale del movimento sionista stava ancora procedendo a sbrigare le pratiche burocratiche per far imbarcare gli ultimi ebrei in fuga alla volta della Palestina britannica. Due movimenti politici, uno in adorante danza sul precipizio ed un altro sempre meglio organizzato, intrecciarono dunque le proprie strade in quelle stesse ore a Trieste. Aggiungo io che negli anni precedenti la sezione di Via del Monte, via tra l’altro decantata in una famosa poesia dallo scrittore triestino Umberto Saba, avrebbe permesso la fuga in Palestina di decine di migliaia di ebrei europei che scappavano dalle persecuzioni, tanto che Trieste si meritò in seguito l’appellativo di “Porta di Sion” o “Porta d’Oriente”. Il resto della storia è noto ed altro non è che l’ennesima esplosione della pentola a pressione che una parte preponderante della città si ostinava a tenere nascosta in casa. Il Fascismo di confine occupò con i nazisti la Jugoslavia dal ’41 al ’45, cosa che molti vecchi dalla memoria sbadata ed esponenti illustri della Nuova Destra fanno finta di non sapere. La risposta da parte slava fu chiara e senza alternative: guerra partigiana senza pietà contro l’occupante. Durante una delle tante amnesie e fughe collettive che tanto hanno caratterizzato le classe dirigenti italiane, cioè dopo l’armistizio del ’43, lo Stato si liquefece come neve al sole sul confine orientale. Le valorose camicie nere che fino a ieri sarebbero morte per la loro Italia, si tolsero la camicia per mettersi gli abiti civili scappando e lasciando che a fare le spese della rabbia ventennale repressa da parte degli slavi fossero i rappresentanti di uno Stato che in quel momento non c’era più oppure i soliti poveri cristi. Nella tragica avanguardia triestina si situa inoltre l’unico campo di concentramento in Italia e, fatto ancora più importante, l’avvento inaugurale della Guerra Fredda in Europa ben due anni prima del famoso discorso di Churchill sulla cortina di ferro.

Di fatto i primi liberatori in termini temporali di Trieste furono i comunisti jugoslavi, che batterono sul tempo i neozelandesi e gli altri alleati anglo-americani provenienti dalla Pianura Padana. Si venne a creare così una situazione unica, ancor prima dell’occupazione e divisione di Berlino nota a tutti, dal momento che già il 1 maggio 1945 Trieste fu la prima città liberata a diventare un terreno di scontro tra le opposte ideologie. Per capire quanto valesse all’epoca Trieste, basti pensare che venne creato un tavolo di Pace apposito per decidere del futuro della città che poi sfociò nel memorandum di Londra del ’54. Nel frattempo finì la guerra ed accaddero fenomeni politici che da Trieste ancora una volta si diffusero nel resto d’Italia e d’Europa. Come detto, Trieste fu la prima città ad essere divisa a seconda delle zone d’influenza alleate. Ad ovest venne creata la cosiddetta zona A amministrata dagli inglesi ed americani, mentre ad est la contrapposta zona B fu di fatto annessa dagli jugoslavi. Fu inoltre la prima città a segnare una rottura tra il PCI locale, fedele a Stalin e Togliatti, e i comunisti sloveni che invece ambivano ad unirsi a Tito, tre anni prima della rottura ufficiale tra quest’ultimo e Stalin. Fu anche la prima città dove, vista anche la situazione di contingenza derivante dalla sua precaria posizione di confine tra i blocchi e la presenza degli americani sul campo, venne attuato prima che ciò accadesse in Italia il Piano Marshall fatto di aiuti all’economia locale e di cibarie per il popolo. Ma Trieste fu anche la prima città in assoluto in Europa dove vennero subito riutilizzati gli elementi fascisti in termini provocatori ed in funzione anti – comunista; stiamo parlando insomma della fondazione dell’organizzazione Gladio o Stay – Behind, che disponeva tra le varie cose di diversi depositi d’armi in Carso. In termini di costume fu l’unica città “italiana” dove era possibile chiedere il divorzio 30 anni prima del referendum appoggiato dai radicali.

Nel 1953 gravi scontri tra giovani manifestanti filo – italiani e poliziotti inglesi, rappresentanti il governo d’occupazione alleato, causarono diverse vittime ed una grave crisi diplomatica che rischiava di causare una guerra diretta tra Italia, Jugoslavia e le relative potenze. Oggigiorno diversi storici sono unanimi nel ritenere che ad essere presenti tra i manifestanti furono anche elementi neofascisti, in seguito collaboranti con Gladio, che ebbero un ruolo preponderante nel provocare gli agenti inglesi e a farli intervenire con la violenza. Questa intromissione di elementi sovversivi e la loro collaborazione con i servizi fu poi un leit motiv per la successiva storia d’Italia, come i più anziani sapranno. Vista la situazione di emergenza, gli alleati decisero di forzare un accordo che arrivo nell’ottobre del ’54 e che fece rientrare i “bersaglieri liberatori italiani” a Trieste tra ali di folla gaudente. Smaltita la sbornia, ci si accorse che la seconda liberazione dopo quella del ’18 fu ancora più amara da ingoiare rispetto alla prima. L’Italia non era il Paese del Bengodi e la precaria situazione economica causò un secondo esodo, questa volta di triestini, che in 20mila abbandonarono quella che all’epoca venne definita la “madre ingrata”. La maggior parte di loro emigrò in Australia. Un fenomeno, quello dell’emigrazione di migliaia se non di milioni di giovani italiani disoccupati, che ora è sulla pagina di tutti i giornali ma che all’epoca fu considerato solo dalle solite e poche menti lucide come un sinistro presentimento di quello che l’Italia avrebbe portato. Ci fu addirittura qualche maligno che parlò di seconda o terza pulizia etnica ai danni dei triestini nativi, per far posto in quest’ultimo caso agli esuli istriani di lingua italiana e per ovvi motivi ideologicamente di destra che proprio in quegli anni arrivarono a migliaia in città. Dato oggettivo è che a partire da quella sostituzione demografica, Trieste si è sempre di più confermata come città italianissima e sempre meno multietnica. Altro effetto premonitore, che ora non fa nemmeno più notizia, fu lo smantellamento industriale dei Cantieri Navali di San Marco situati vicino al quartiere operaio di San Giacomo. La chiusura di un cantiere storico fondamentale per il precedente sviluppo della città venne giustificato dalla presenza ridondante di altrettanti cantieri negli altri porti d’Italia. La chiusura comportò uno sciopero dei licenziati, anche loro pronti a prendere le valigie per l’estero, oltre che a scene di guerriglia urbana soprattutto in piazza Garibaldi che ben pochi ricordano.

E poi a partire degli anni ’60 che dire? Qualche triestino direbbe che non c’è più molto da aggiungere poiché il “secondo ritorno di Trieste all’Italia” segnò il de prufundis per la città. In verità cosucce interessanti vi furono, altro che trent’anni di safari…Trieste fu una delle pochissime grandi città italiane, assieme a Catania e a Roma, ad avere il movimento neofascista del MSI stabilmente a due cifre. Quando all’inizio degli anni ’90, i cosiddetti post – fascisti di Fini and co andarono al governo per la prima volta con Berlusconi, a Trieste non ci si scandalizzò più di tanto visto il seguito da loro sempre avuto al contrario del resto d’Italia. Il lettore non dimentichi poi che la chiusura dei manicomi venne elaborata tra Gorizia e Trieste dal medico psichiatra Basaglia, ben prima del resto del mondo. Fu una rivoluzione assoluta. Non si scordi che il terrorismo palestinese inaugurò una delle sue pagine proprio a Trieste, facendo esplodere una serie di oleodotti che portavano il petrolio in Austria e Germania. Sempre dal punto di vista politico, la città adriatica fu il teatro di due fenomeni molto interessanti e che ora non sorprendono più nessuno: la prima fu la creazione negli anni ’70 di una prima lista civica – la Lista per Trieste – che si prefiggeva lo scopo di combattere i partiti tradizionali e di andare oltre la destra e la sinistra (vi ricorda qualcosa?), mentre negli anni ’90 si verificò il fenomeno dei cosiddetti tecnici od esponenti della società civile che entrarono in politica con i casi contrapposti del re del caffè Riccardo Illy ed il piccolo imprenditore Roberto Dipiazza. Quest’ultimi due accadimenti politici, ossia la Lista per Trieste e i tecnici prestati alla politica, garantirono il governo della città da parte di forze civiche neutrali e riuscirono a tenere in minoranza i partiti tradizionali, ben prima che entrassero nell’arena politica i vari movimenti odierni che voi tutti conoscete.

Ebbene finito l’excursus storico, che cosa rimane al lettore giunto fin qui? Detto in altri termini: che cosa vorrei dimostrare, anche se avessi effettivamente ragione? Quello che rimane da scrivere è la verifica di quanto esposto finora sulla Trieste come storica avanguardia d’Italia e d’Europa ai giorni contemporanei. Nella seconda ed ultima parte analizzerò perciò lo stato attuale della mia città, per vedere quali tendenze ne possano venire fuori per il futuro. Vi anticipo subito dicendo che i risultati non saranno propriamente esaltanti ma abbiate ancora un po’ di pazienza e giudicherete voi

2 Risposte a “Trieste avanguardia d’Europa 1/2”

  1. Manca ogni riferimento alle foibe e all’esodo degli istriani, classica emigrazione forzata (stime tra le 250.000 e le 350.000 persone, direi un pò più rilevante dell’emigrazione economica del ’54 verso l’Australia di 20.000 persone).
    Cordialmente

  2. Buongiorno Sig.ra Maria,

    capisco ma in questo articolo mi sono soffermato solo sulla storia di Trieste, la mia città natale, e non su quella del territorio circostante, come per esempio l’Istria.

    Ad ogni modo anche per motivi personali conosco la tragedia istriana. So anche molto bene che molti degli istriani che decisero di abbandonare le loro case, per non voler vivere in un Paese socialista, ma soprattutto di lingua slava, contribuirono all’italianizzazione di Trieste. Attenzione: non ne sto dando un’accezione né positiva né negativa, ma è un dato di fatto che Trieste da molto tempo non sia altro che una normale città italiana di provincia.

    La ringrazio per la nota e le auguro una buona giornata.

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