L’antisemitismo in Germania tra realtà ed omertà

La libreria di antiquariato Bücherhalle, situata nel centrale quartiere berlinese di Schöneberg, è una delle più belle dell’intera capitale tedesca. Almeno secondo l’umile opinione del narratore, che a Berlino ci vive. Passandoci quasi ogni giorno a fianco, mi fermo sempre qualche minuto a rimirare le copertine dei libri esposti: romanzi storici, trattati di geopolitica, un intero riquadro dedicato alle religioni, libri in inglese e molto altro ancora fanno di questa libreria uno dei pochi spazi silenziosi dove sfogare l’ormai inflazionato stress metropolitano. Eppure nella notte di venerdì 4 gennaio è accaduto qualcosa di antipatico: un gruppo di buontemponi ha pensato bene di distruggere una delle tre grandi vetrine del negozio, che come tra un po’ vedremo esponeva ed espone tuttora dei libri particolari, tramite grossi petardi, con tutta probabilità rimasugli del Capodanno da poco passato. Solo per miracolo non ha preso fuoco l’intera libreria, anche grazie all’intervento del proprietario di un ristorante lì vicino, il quale era rimasto aperto fino a notte fonda. Nessun libro è stato rubato ma questo, in tempi di nativismo digitale, non mi ha affatto sorpreso. Si dà comunque il caso che la vetrina frantumata, come accennato sopra, espone ancora adesso alcuni libri dedicati alla religione ebraica ed anche alla tragedia dell’Olocausto. Pertanto qualche giorno dopo il fattaccio, con la vetrina ancora in riparazione, decido di recarmi sul posto e di chiedere alla vecchia proprietaria, che assieme al marito gestisce la libreria, se – Dio non voglia – si possa parlare di un atto di antisemitismo. La sua reazione mi spiazza; si mette a ridere sonoramente, quasi volesse autoconvincersi che non è successo nulla, e mi risponde che si è trattato di un mero atto di vandalismo e non quindi di un gesto antiebraico. Aggiunge, ma questo so che non è vero visto che ci passo là quasi ogni giorno, che nella vetrina attaccata erano per lo più visibili libri per ragazzi e di moto. Tuttavia, dopo che la vetrina è stata definitivamente riparata e i libri riportati sul posto, non ho potuto fare a meno di notare che quelli dedicati all’ebraismo, con relativa stella di Davide in bella vista sulla copertina, e sull’Olocausto sono ancora là dov’erano sempre stati. Ad ogni modo la proprietaria è lei e dovremmo crederle sulla parola. O no? Non sarebbe d’altronde il primo atto di antisemitismo verificatosi a Berlino, la fantomatica città più alternativa della Germania e forse d’Europa. Anche la location della libreria è alquanto particolare; si trova difatti nella centrale Haupstrasse, a pochi metri di distanza dal mitico numero 155 dove aveva vissuto per qualche anno David Bowie. Anche il quartiere di Schöneberg non è come gli altri: prima che gli ebrei venissero cacciati od uccisi dalla ciclica e lucida follia tedesca, era quel quartiere con la più alta concentrazione ebraica a Berlino. Perfino Einstein ci aveva vissuto negli anni in cui aveva insegnato alla Humboldt Universität. Ora i tempi sono cambiati e le tracce della presenza ebraica a Schöneberg, e nella stessa Berlino, sono appena visibili. Tuttavia dopo la fine dei regimi socialisti molti ebrei dell’Europa orientale, invece che emigrare in Israele, avevano deciso di stanziarsi proprio a Berlino, anche per la sua fama (presunta) di città  libera ed anticonformista. Negli ultimi anni, complici le perenni tensioni tra israeliani e palestinesi, diversi giovani ebrei hanno anch’essi abbandonato il loro paese per respirare un’aria diversa, non fatta di checkpoint e bollettini di guerra. Tuttavia, come menzionato sopra, episodi di antisemitismo hanno funestato la cronaca berlinese degli ultimi mesi. Per esempio l’anno scorso, nel quartiere “de sinistra” e progressista di Prenzlauer Perg un giovanissimo siriano di 17 anni aveva preso letteralmente a cinghiate un altro giovane, che aveva avuto l’unico neo di portare la kippah sulla testa. Lo stesso giovane oggetto dell’attacco aveva ripreso l’aggressore, subito arrestato, col suo cellulare, permettendo che il video facesse il giro della Germania ed aprendo così il dibattito sul ritorno dell’antisemitismo nel paese. Sempre a Berlino per due volte era successo che una folla di arabi, per lo più palestinesi, avesse bruciato una rudimentale bandiera israeliana da loro stessi fabbricata. La prima volta era avvenuta nel quartiere multiculturale di Neukölln il 10 dicembre del 2017, mentre la seconda lo stesso giorno ma di fronte all’ambasciata americana, situata non lontano dalla Porta di Brandeburgo e a fianco dell’enorme monumento dedicato agli ebrei assassinati dal regime nazista. In entrambe le occasioni i dimostranti avevano manifestato contro la contestata decisione, portata a termine qualche mese dopo, del Presidente Trump di voler trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme. Un altro episodio di odio antiebraico si era verificato perfino in un prestigioso college privato, la rinomata scuola tedesco-americana Kennedy nel quartiere benestante di Zehlendorf. Il ragazzino quindicenne vittima di attacchi verbali ed intimidazioni è il figlio di un ebreo americano di New York, che però da tempo vive e lavora a Berlino. Gli aggressori, ragazzi come lui, avevano spesso disegnato delle svastiche su foglietti di carta, che gli avrebbero perfino appiccicato sulla schiena in modo che fossero visibili da tutti, oltre ad averlo picchiato e bruciato una sigaretta sul viso. Per mesi la direzione della scuola non aveva visto o aveva finto di non vedere (forse perché i paparini degli aggressori erano pezzi grossi di qualche autocrazia araba o di qualche clan berlinese?) finchè il ragazzo, esausto al punto da darsi malato, non aveva deciso di denunciare il tutto, scatenando un discreto scandalo sui media locali. I piccoli antisemiti in erba sono stati poi cacciati dal prestigioso istituto privato, così come la povera vittima che ha deciso di andarsene e cercare un istituto dove l’omertà di studenti e professori non fosse la regola. Solo qualche settimana fa, il 19 gennaio, un ragazzo che portava anch’egli la kippah era stato offeso pubblicamente da un uomo, che in ebraico gli aveva intimato di togliersela pena conseguenze peggiori. Il dettaglio interessante è che l’aggressione verbale era avvenuta verso le 20.00 di un sabato sera qualunque nella stazione ferroviaria di Nikolasee, che altro non è che la stazione precedente a quella di Wannsee. Quest’ultimo nome dovrebbe dirci qualcosa, visto che sempre in un freddo giorno di gennaio di 72 anni fa in quel tranquillo quartiere borghese di Berlino, adiacente all’omonimo lago, venne progettata in una villa la soluzione finale del problema ebraico. Va da sè che sembra, perlomeno non è stato riportato da nessun giornale, che i passanti pur presenti sul posto non avessero affatto intimato all’aggressore di smetterla. Lo stesso uomo parlante ebraico, protagonista dell’ennesimo gesto di antisemitismo a Berlino, non è ancora stato individuato dalla polizia. Il problema è che nel rituale cortocircuito di una società, quella tedesca, sempre in preda al terrore di criticare Israele per venire tacciati seduta stante di antisemitismo, si indica il dito e non la luna. Si tende difatti ad evitare di accusare una parte della comunità, quella musulmana, di odio antiebraico, senza inoltre al tempo stesso comprendere le cause profonde di questo sentimento d’avversione. Poche persone sono per esempio a conoscenza che, del milione di siriani fatti generosamente entrare quattro anni fa, ve n’erano migliaia, ma le stime sono impossibili da accertare, che in verità erano profughi palestinesi, costretti da due o financo tre generazioni a vivere negli squallidi campi profughi presenti in Siria. Come loro, ve ne sono altrettanti milioni accampati dal 1948 nei paesi arabi confinanti con Israele: gli stessi territori palestinesi sotto occupazione israeliana, il Libano, la Siria citata, l’Egitto e la Giordania per citarne solo alcuni. E chiaro che, finchè non verrà risolta una volta per tutte la questione palestinese, l’odio nei confronti di Israele da parte di milioni di arabi ahimè rimarrà vivo, anche nei paesi europei a più forte concentrazione di immigrati. Nel clima di euforia conseguente all’ordine della Signora Merkel di aprire i confini in quella fatidica estate del 2015, ben pochi si erano posti la questione di come integrare migliaia, se non centinaia di migliaia, di profughi palestinesi che di siriano avevano solo la carta d’identità e spesso nemmeno quella, visto che in Siria vengono ancora adesso considerati stranieri e non cittadini. I risultati dell’ennesima disorganizzazione tedesca sono sotto gli occhi di tutti, a prescindere dalle belle ma scontate parole sull’accoglienza indiscriminata. V’è poi da aggiungere quanto sia sempre più difficile scriminare tra la critica al sionismo come ideologia politica, quale effettivamente è, la condanna delle azioni dei vari governi israeliani e l’antisemitismo più bieco. Ne sa qualcosa il collettivo americano “Women’s March”, che negli ultimi anni si è battuto con manifestazioni anti-Trump e a favore dei diritti delle donne. La caccia alle streghe non ha dunque nemmeno risparmiato quelle femministe americane, viste con un occhio di riguardo da una certa sinistra europea che ancora oggi sogna di vedere il populista Trump cadere assieme ad i suoi filistei. Ancora in ottobre il gruppo in questione avrebbe dovuto ricevere un premio per i diritti umani da parte della Fondazione Ebert, politicamente vicina ai socialdemocratici della SPD, per il loro impegno nella causa femminista. Tuttavia il premio con relativa cerimonia in quel di Berlino era saltato all’ultimo, dal momento che una delle promotrici americane era stata accusata di aver espresso opinioni antisemite, dopo aver criticato duramente Israele e la posizione degli ebrei americani, che a suo modo di vedere sarebbero stati inerti di fronte alla decennale occupazione dei territori palestinesi da parte dell’esercito con la Stella di Davide. Un altro personaggio pubblico, questa volta tedesco, che aveva visto invece la sua carriera finire da un giorno all’altro era stato il vignettista Dieter Hanitzsch, di 85 primavere, il quale era stato licenziato in tronco dalla Süddeutsche Zeitung soltanto per aver ritratto il primo ministro israeliano Netanjahu su un palco musicale con in mano un microfono e sull’altra un missile. Il titolo della vignetta – “L’anno prossimo a Gerusalemme” – era volutamente provocatorio, poichè è l’augurio che gli ebrei si fanno da duemila anni durante particolari cerimonie religiose, come per esempio alla fine di un matrimonio, per commemorare la distruzione del Secondo Tempio (dopo quello di Re Salomone) da parte dell’Imperatore romano Tito nel 70 d.C. ed anche per non dimenticare la relativa diaspora. La scelta del palco era dovuta alla vittoria di una cantante israeliana all’ultima edizione dell’Eurofestival, tenutasi l’anno scorso. Evidentemente in Germania la satira e la discussione, anche accesa, su certi temi come quello israeliano viene fatta a proprio rischio e pericolo. Peccato però che, come visto sopra, nel frattempo gli antisemiti, quelli veri e provenienti da ben altri ambienti, ci sguazzano comunque e in non pochi casi nell’incolumità completa. Per concludere, potremmo dire che i fatti descritti finora sono solo la punta dell’iceberg. In un report governativo uscito l’agosto scorso, gli episodi di antisemitismo acclarato a Berlino nella sola prima metà del 2018 erano stati 80, con un aumento rispetto all’anno precedente. Senza contare quel sottobosco di intimidazioni verbali e violenza psicologica, come quella nella scuola privata, che non vengono denunciati solo per paura. Non ci sarebbe infine da sorprendersi di scoprire come anche la vetrina distrutta, vista all’inizio, possa rientrare nelle statistiche di odio antiebraico per l’anno corrente.

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