La Brexit vista dal lato inglese

Come promesso nella puntata precedente di qualche giorno fa, il nostro viaggio sulle possibili conseguenze di una Brexit dura, senza cioè un accordo condiviso tra il governo britannico e la UE, per l’economia tedesca procede senza sosta. Nel prossimo (ed ennesimo) contributo sul tema analizzeremo nello specifico quali regioni tedesche (Bundesländer) verranno più coinvolte dall’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea in termini di calo, se non di crollo vero e proprio, dei loro Pil e di aumento della disoccupazione. Prima però risulta necessario fare un breve riepilogo sugli ultimi sviluppi della Brexit dal lato inglese. Se è indubbio che la sentenza di 2 settimane fa dell’Alta Corte britannica, secondo la quale la sospensione dei lavori parlamentari prevista fino al 14 ottobre e fortemente voluta dal governo conservatore è stata dichiarata illegittima, sia stata un duro colpo per il Primo Ministro Boris Johnson, dall’altra parte il suo piano di uscita “caotica” dalla UE sta procedendo tutto sommato senza grandi intoppi, almeno finora. Last but not least, per impiegare un efficace inglesismo, 2 giorni fa un Tribunale scozzese, cui si erano appellati alcuni esponenti politici di spicco del locale partito nazionalista scozzese, ha deliberato a favore del Primo Ministro britannico.

Nello specifico la Corte non ha ritenuto necessario porre ulteriori pressioni su quest’ultimo, con perfino l’eventuale minaccia di finire in carcere o di pagare un’esosa multa pecuniaria, nel caso in cui non decida di richiedere la prorogazione dell’articolo 50. Spieghiamo nei dettagli la vicenda all’ignaro lettore medio italiano: prima di vedere sospesi i propri lavori per poco più di una settimana (prima della sentenza dell’Alta Corte vista sopra che ne ha sancito l’illegittimità) la Camera dei Comuni, ossia il Parlamento britannico, aveva deliberato una legge, anche grazie al voto di alcuni conservatori dissidenti, secondo la quale il governo conservatore capitanato da Johnson è obbligato a richiedere una proroga di 3 mesi al Consiglio Europeo (organo europeo che raggruppa i capi di governo dei Paesi membri), qualora entro il 19 ottobre non si trovi un accordo condiviso sui dettami dell’uscita con l’Unione Europea. Il Tribunale scozzese in questione evidentemente si è fidato della parola scritta data dal governo britannico all’interno delle memorie difensive antecedenti alla sentenza; ciò tradotto, significa che almeno per ora non grava sulla testa bionda di Boris Johnson la minaccia di finire in carcere per aver violato una legge emanata da quello che viene considerato il più antico Parlamento al mondo. Come fatto notare in un precedente articolo sempre su questo blog, appare sempre più probabile, e non affatto peregrina, l’ipotesi per cui il Primo Ministro Johnson, al fine appunto di non violare formalmente la legge, richieda comunque la proroga dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, che regola il recesso di uno Stato membro dall’Unione Europea, al Consiglio Europeo. Tuttavia al tempo stesso il leaver conservatore potrebbe porre a margine del medesimo documento una nota scritta, nella quale si prega gentilmente sempre il Consiglio Europeo di non tenere conto della presente richiesta di proroga e di lasciar così andare il Regno Unito per il proprio destino.

Sembra incredibile ma, se si leggono i maggiori quotidiani britannici, si scopre che non stiamo affatto discutendo di fantascienza. Un altro fattore positivo per il governo conservatore, già messo in risalto in precedenza, è che lo speaker della Camera dei Comuni, quello stesso conservatore europeista, ergo dissidente, John Bercow ha già annunciato le sue dimissioni per il 31 ottobre, data nella quale Boris Johnson, anche attraverso numerosi tweets ormai di circostanza, ha promesso di far uscire il Paese dalla UE. Infine, a dar fiato al Primo Ministro britannico ci hanno pensato alcuni sondaggi usciti 2 giorni fa, i quali danno il partito conservatore al 38%, ben 15 punti davanti al partito laburista di Jeremy Corbin, verso cui solo dagli ultimi mesi a questa parte sta confluendo la maggior parte dei remainers, decisi a tutto pur di tenere ancorato l’UK alle magnifiche sorti e progressive dell’Europa. Appena al terzo posto col 15% si collocherebbero i liberaldemocratici, partito dichiaratamente ed incondizionatamente europeista, incalzati però a stretto giro dal partito di Nigel Farage, il quale alle ultime elezioni europee si è imposto come primo partito britannico. I sondaggi, come ben si sa, lasciano il tempo che trovano, ma se dovessero essere confermati dopo un’eventuale elezione generale, avremmo un Parlamento britannico governato da una coalizione antieuropeista composta dai conservatori e dal partito “Brexit Party” di Farage. A quel punto la Brexit senza accordo sarebbe inevitabile e foriera di conseguenze ben più gravi per l’economia europea (leggi tedesca), proprio perché Boris Johnson avrebbe alle sue spalle una House of Commons ben più robusta di quella odierna, dove di fatto da settimane il suo governo non ha più una maggioranza parlamentare. Gli stessi sondaggi citati sopra dimostrano come il 60% di chi aveva votato Leave al referendum del 2016 appoggi in questo momento il partito conservatore, complice naturalmente l’entrata in scena da questa calda estate del breexiter convinto Johnson dopo la debacle della “moderata” Signora May. E’ il valore più alto di consensi dal 2017.

Per concludere il discorso sui recenti sviluppi della Brexit, è notizia delle ultime 24 ore che il governo britannico abbia dichiarato i negoziati con la UE come falliti, dopo una telefonata tra Boris Johnson ed Angela Merkel. Il governo tedesco, per ovvie ragioni di segretezza, non ha voluto rilasciare ulteriori commenti sul contenuto della telefonata, ma è chiaro che la solita rigidità mentale tedesca, che da tempo ha influenzato le massime istituzioni europee, rischi di partorire l’ennesimo capolavoro diplomatico. Anche se va detto per correttezza che il vero obiettivo geopolitico di Boris Johnson sia quello di far uscire il Regno Unito dall’Unione Europea senza accordo alcuno, creando in questo modo i maggiori danni economici possibili alla Germania, anche grazie all’aiuto dell’altra grande potenza anglosassone, gli Stati Uniti guidati dalla politica protezionistica (ossia di dazi contro le case automobilistiche tedesche che esportano verso gli USA) di Donald Trump. Il mancato superamento del cosiddetto backstop nordirlandese e il più ampio status dell’Irlanda del Nord all’interno, o al di fuori, del Mercato Unico Europeo è solo un mero casus belli per far saltare il tavolo.

Che ci riesca o meno, quello è un altro discorso che non ci compete, visto e considerato che nessuno di noi – almeno credo – faccia parte delle stanze dei bottoni. Di sicuro la settimana prossima sarà decisiva per capire il destino della Brexit: il 15 ottobre la Regina Elisabetta II aprirà formalmente i lavori parlamentari per l’”anno sociale” 2019/20 con il suo tradizionale discorso, scritto però come da prassi dal governo in carica; tra il 17 ed il 18 ottobre il Consiglio Europeo si riunirà per dettare una linea comune contro la “Perfida Albione” e sarà interessante vedere se qualche Paese, come per esempio la Francia e l’Ungheria, si opporrà col veto alla proroga di 3 mesi dell’articolo 50; infine il 19 ottobre è la data nella quale scade l’obbligo legale del raggiungimento di un accordo condiviso UE-UK, senza il quale Boris Johnson sarebbe obbligato a richiedere la proroga. Il condizionale è quanto mai d’obbligo.

Quel che è certo è che già ora, sebbene la Brexit non sia ancora stata partorita, l’economia tedesca sta soffrendo terribilmente per le incertezze ad essa connesse, come già analizzato nell’articolo precedente di una settimana fa. Nel prossimo contributo andremo appunto ancora più a fondo nella nostra analisi.

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