L’accerchiamento continua

Traduzione: La fine dell´export tedesco, come lo conosciamo.

Sono passate solo alcune settimane da quando, da queste medesime pagine, abbiamo dato conto dei rischi concreti per l’economia tedesca derivanti da una sempre più probabile hard Brexit, senza cioè accordo alcuno sui termini dell’uscita tra il governo britannico e le istituzioni europee. Senza ripetere concetti già espressi numerose volte, potremmo riassumere che una Brexit senza agreement tra le parti potrebbe comportare una serie di dazi e tariffe doganali reciproci che alla lunga potrebbero danneggiare, oltre la stessa economia del Regno Unito, anche quei Paesi europei maggiormente esposti in esportazioni con le isole britanniche. Manco a farlo apposta, quel Paese europeo che più esporta, soprattutto automobili e prodotti industriali, verso l’UK è la Germania, come già avevamo avuto modo di appurare. Basti solo ricordare che in ballo ci sono 85 miliardi di Euro di fatturato annuo.

Dicevamo appunto che sono passate solo poche settimane e subito emerge un’altra gatta da pelare per quell’economia, considerata da autorevoli analisti anche nostrani come la vera locomotiva d’Europa, che mai si può fermare. Infatti il Presidente americano, rigorosamente populista ergo oggetto di attacchi senza soluzione di continuità da parte di tutti i media tedeschi a partire dal giorno della sua elezione nel novembre del 2016, questa volta sembra fare sul serio. Non stiamo però parlando della volontà di costruire il controverso muro di protezione dai migranti al confine col Messico, bensì della sua decisione di fissare dei dazi all’import delle automobili tedesche, i media locali dicono in verità europee, dirette verso gli Stati Uniti. In realtà il tema non è certo nuovo ed è già stato sviscerato in altre sedi. Tuttavia la novità è che la scorsa settimana il Ministero del Commercio americano ha consegnato a Donald Trump un proprio report sull’opportunità o meno di considerare le case automobilistiche tedesche come una minaccia alla sicurezza americana. Finora i dettagli del dossier non sono stati rivelati alla stampa, anche se i media statunitensi hanno dato la classificazione di rischio per la sicurezza da parte del suddetto Ministero come ampiamente sicura.

Il nervo è così scoperto nella patria delle automobili per eccellenza, ossia la Germania, che alla recente Conferenza sulla Sicurezza, tenutasi a Monaco, la Cancelliera Merkel ha dichiarato pubblicamente che “noi (ossia i tedeschi) siamo orgogliosi delle nostre auto e siamo anche autorizzati a farlo”. Probabilmente la Cancelliera, ormai in prossima uscita visto che da tempo aveva annunciato che non si sarebbe ricandidata alle prossime elezioni politiche, si sarà dimenticata di aggiungere che una della case automobilistiche tedesche per eccellenza, la Volkswagen, nei soli Stati Uniti ha pagato una serie impressionante di multe per un totale di qualcosa come 25 miliardi di dollari, che in Italia varrebbero come una normale manovra finanziaria. I fatti sono o dovrebbero essere noti a chiunque: nel 2015 emerse uno scandalo internazionale ai danni della casa produttrice tedesca fondata nel 1937, con sede a Wolfsburg nella Bassa Sassonia, accusata prima dalle autorità americane e poi da quelle europee, che ci arrivarono quindi dopo, di aver truccato milioni di autoveicoli tramite software appositi, in modo tale da superare i rigorosi test sulle emissioni diesel. Tuttavia la Signora Merkel è quello stesso leader politico che durante il suo discorso di commiato al Parlamento Europeo di qualche mese fa, arrivò a definire l’Europa come il “Continente dell’auto”. Quella frase era già stata riportata da queste pagine, mentre sugli altri media era passata inosservata. Millenni di cristianesimo, ebraismo, rinascimento, umanesimo, illuminismo e progressi sociali evidentemente sarebbero passati in secondo piano secondo la sua personale visione dell’Europa, emersa durante quel discorso.

A prescindere dai gusti personali della Cancelliera, dicevamo che ora Trump fa sul serio. Questo perché, qualora il Ministero del Commercio americano avesse effettivamente considerato BMW and company come delle minacce alla sicurezza interna alla stregua dell’Isis, il Presidente avrebbe 90 giorni di tempo per decidere se fissare dei dazi di ingresso sull’import di milioni di autoveicoli provenienti dalla Germania, pardon dall’Europa. Lo stesso Trump aveva più volte dichiarato o tramite i suoi caratteristici cinguetti, detti volgarmente tweets, oppure di fronte alle telecamere di mezzo mondo, che i dazi da applicare a tutte le macchine prodotte in Germania ed esportate in America, potrebbero e dovrebbero essere di almeno il 25%. Secondo fonti economiche tedesche, fedelmente riportate da alcuni organi mediatici come il Die Zeit, qualora questa quota venisse applicata, le esportazioni tedesche di auto verso gli USA potrebbero dimezzarsi a lungo termine; inoltre sul totale di tutte le esportazioni automobilistiche dalla Germania, il cui fatturato annuo si aggira intorno ai 18,4 miliardi di Euro, il calo potrebbe essere del 7,7%. E badi bene il lettore che non abbiamo nemmeno considerato l’imminente guerra commerciale tra l’Europa e la Gran Bretagna, già descritta in precedenti contributi e che con tutta probabilità comporterà anch’essa un calo dell’export e di conseguenza del fatturato per le “grandi sorelle” dell’industria automobilistica tedesca.

Ad ogni modo il fronte all’interno dell’Unione Europea è lungi dall’essere granitico. Sebbene qualche settimana fa tra le fanfare generali la Germania e la Francia avessero rinnovato la loro amicizia e la loro alleanza di ferro con il cosiddetto Trattato bilaterale di Aquisgrana, le visioni sul problema delle auto sono alquanto divergenti. Se da una parte la Merkel vorrebbe trovare un accordo col governo americano, che includerebbe anche il Trattato di libero scambio euro-atlantico (TTIP), da anni congelato anche per le numerose manifestazioni di protesta da parte dei cittadini tedeschi, dall’altra un Macron alle prese con i gilet gialli e sempre più indebolito preferisce ora agire con maggior cautela. In verità la guerra commerciale, sempre più aperta, tra la UE ad egemonia tedesca e gli Stati Uniti non è l’unico tema di frizione tra la Germania e la Francia. Neanche una settimana fa Macron sembrava aver fatto propria la contrarietà angloamericana (e polacca) all’opportunità di raddoppiare la fornitura di gas russo diretto in Germania attraverso il Baltico, tramite i lavori del cosiddetto progetto North Stream 2. Invece per una Germania, sempre più assettata di energia dopo la rinuncia al nucleare decisa nel 2011 e quella più recente al carbone anche se entro il 2038, il prezioso gas proveniente dalla dittatoriale Russia del perfido Putin mai come ora risulterebbe imprescindibile per il suo sforzo economico.

Quel che è certo è che sembra proseguire quella sindrome da accerchiamento tedesca, già da noi descritta in tempi non sospetti nell’aprile dell’anno scorso, quando si era profetizzato che a picconare, per usare un termine squisitamente cossigiano, il neo miracolo economico tedesco, costruito ad arte su export record ed Euro debole, ci avrebbero pensato le due classiche potenze marittime anglosassoni. Da una parte infatti abbiamo una Gran Bretagna, la cui uscita dalle magnifiche sorti e progressive del sogno europeo sembra ogni giorno di più disordinata e foriera di perdite economiche per la Germania, mentre dall’altra il grande protettore americano di un tempo sembra intenzionato a premere sul tasto dello “switch off” per le esportazioni teutoniche, vanto del paese leader in Europa. Le conseguenze dei due fronti facenti in realtà parte di un’unica guerra commerciale, oltre al calo del summenzionato export, saranno un crollo delle vendite, del relativo fatturato, e infine di una serie di licenziamenti presso gli stabilimenti automobilistici presenti in Germania, necessari per poter rimanere sul mercato. Se poi si apriranno le porte di una recessione, considerata fantascientifica fino a quale mese fa, per l’economia più sana e robusta d’Europa, lo scopriremo solo vivendo.

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