Germania kaputt?

germania kaputt

I due eventi politici più rilevanti nel panorama europeo delle ultime settimane sono stati sicuramente le elezioni generali tedesche e il referendum sull’indipendenza della Catalogna. Essendo il mio blog in linea teorica incentrato sulla Germania, paese in cui mi trovo a vivere da emigrante, la logica vorrebbe che mi occupassi solo delle vicende che stanno caratterizzando questo paese. Tuttavia vorrei prendermi alcuni minuti di tempo per soffermarmi sul referendum che si è tenuto ieri in Catalogna e che tanto scalpore sta facendo anche al di fuori dei confini iberici. Premetto che non è mia intenzione analizzare i presunti vantaggi o punti dolenti di un’eventuale secessione della Catalogna dalla Spagna; non è affar mio né nostro valutare le forze in campo visto e considerato che devono essere solo i catalani a decidere del loro destino.

Leggendo le cronache delle ultime ore, sembra che a votare sia andato il 42% del corpo elettorale, il quale al 90% si è schierato a favore dell’indipendenza. A mio parere molte più persone sarebbero andate a votare ed avrebbero rinforzato il fronte indipendentista qualora il governo centrale non avesse mandato la Guardia Civil ad intimorire con la violenza le persone desiderose di dire la loro. In ogni caso ripeto: non è questa la sede né tanto meno è mia intenzione quella di analizzare le vicende catalane nello specifico.

Ho voluto comunque prendere lo spunto dalla lotta indipendentista catalana per fare un impietoso confronto con le azioni, poche, e le parole, tante, che i secessionisti nostrani hanno portato avanti da 30 anni a questa parte senza smuovere di un millimetro la condizione subalterna del Nord, anzi contribuendo alla sua decadenza. Si può sicuramente avere mille riserve sulle istanze di movimenti indipendentisti come quello catalano e quello scozzese, per citare gli unici due che in tempi recenti sono riusciti a porre tramite referendum la propria popolazione di fronte alla scelta tra l’indipendenza e il permanere dell’unione con i rispettivi stati centrali. In ogni caso sono convinto che anche l’oppositore più incallito di tali secessionismi non potrà che guardare con rispetto alla tenacia dimostrata nel portare avanti la loro lotta politica che da un’idea di minoranza è riuscita a sfociare in una rappresentanza diffusa. Detto in altri termini, al di fuori dello Stivale più che le parole contano i fatti ed anche se al referendum sull’indipendenza della Scozia gli unionisti hanno vinto mentre nella consultazione di ieri più della metà della popolazione non è andata a votare, perlomeno qualcosa si muove e lascia presagire cambiamenti che invece in Italia sembrano morti.

Invece cosa rileviamo nel mitico Nord – Est e nella cosiddetta ricca Lombardia che da decenni ringhiano di volersi staccare? Lasciando perdere patetici carri agricoli camuffati da panzer e scalate ai campanili in stile Vogliamo i Colonnelli, siamo arrivati a poche settimane da un referendum consultivo che si terrà in Lombardia e Veneto e che, secondo i suoi sostenitori, dovrebbe essere il primo passo per una possibile autonomia da Roma. Prima di dire la mia, vorrei in primo luogo che il lettore si faccia un’idea precisa dei quesiti sui quali i veneti e lombardi saranno chiamati ad esprimersi. Eccoli di seguito, con il primo quesito valido solo per i lombardi: «Volete voi che la Regione Lombardia, nel quadro dell’unità nazionale, intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse, ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 116, terzo comma della Costituzione?». Quello che invece riguarda i veneti è molto più stringato: «Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?». Il grassetto risulta essere mio e dovrebbe essere chiaro il motivo per cui ho deciso di usarlo. Il mio altro non è che il tentativo di evidenziare come lo stesso governo regionale lombardo, a guida leghista ricordiamolo, abbia già messo le mani in avanti da un’eventuale secessione dal corrotto governo centrale di Roma.

Già nel quesito è insito il bluff dal momento che qualunque procedura che il governo locale deciderà di seguire all’indomani del referendum consultivo, essa non metterà in nessun modo in pericolo l’unità nazionale. Inoltre nel quesito lombardo c’è un altro dettaglio tipicamente italiano e quindi cerchiobottista, in quel minimo riferimento alle relative risorse che saranno necessarie per portare avanti le mitiche riforme autonomiste. Tradotto altrimenti: qualora anche il governo locale riuscisse a convincere lo Stato centrale della bontà delle riforme, come per esempio quella di trattenere una parte dell’Iva e dell’Irpef che altrimenti andrebbero a Roma, il governo centrale di turno potrebbe fare buon viso a cattivo gioco e dichiarare che sì in termini generali sarebbe giusto e doveroso trasferire maggiori risorse alle comunità locali ma, sì sa, dopo 9 anni la crisi non è ancora superata e bisogna essere solidali nei confronti dei grandi comuni siciliani come Catania o addirittura la capitale Roma a rischio fallimento. Infine entrambi i quesiti risultano del tutto generici e non si capisce a quali forme ulteriori di autonomia si faccia riferimento. E’ chiaro che, a prescindere dalla provenienza geografica, qualunque cittadino di ogni regione d’Italia vorrebbe avere maggiore autonomia in special modo nelle questioni fiscali ma questo il referendum consultivo non lo dice. Inoltre se anche i SI’ ad una maggiore e generica autonomia vincessero con percentuali bulgare, quale sarebbe il successivo passaggio politico?

Anche qui logica vorrebbe che i due governatori (leghisti) Zaia e Maroni andassero a Roma per iniziare delle consultazioni con il governo centrale ma anche una persona digiuna di politica capirebbe che si tratterebbe di una mera messinscena mediatica, per il semplice fatto che il prossimo anno si andrà a votare e quindi ci sarà un altro governo centrale con cui eventualmente negoziare. Inoltre se anche per assurdo il governo Gentiloni si assumesse la responsabilità di concedere una maggiore autonomia alle due regioni in questione, al pari di quanto avviene per esempio con le cinque regioni a statuto speciale, tale riforma sarebbe di tipo costituzionale e quindi dovrebbe passare con una maggioranza dei due terzi dei membri del parlamento pena ricorso ad un referendum costituzionale, il quale può anche bocciare la riforma com’è successo un anno fa con quella della Boschi – Renzi. Ma ovviamente con la prospettiva di andare alle urne tra qualche mese nessun governo sano di mente inizierà una riforma costituzionale da far approvare al parlamento, con i relativi tempi incerti, e con l’alta probabilità che metà Italia da Roma in giù la bocci al successivo referendum.

Insomma ancora una volta l’Italia rimane al palo. Ragion per cui da mero osservatore quale tento di essere non posso comunque far altro che ammirare chi invece dalle parole passa ai fatti concreti, come sta avvenendo in Catalogna e come avvenne qualche anno fa in Scozia. Eppure forse l’unico modo per salvare il paziente italiano sarebbe per assurdo quello di staccargli la spina e lasciarlo morire, piuttosto che tenerlo incubato. Mi rendo conto di utilizzare parole dure e di sicuro eversive ma dall’altra parte non mi faccio nemmeno illusioni su come la linea della palma, per citare il grande Sciascia, sia andata ben oltre la Linea Gotica. Se mi permettete una piccola allusione autobiografica, allora lasciate che vi riveli che anche nella mia città natale abbiamo tuttora un piccolo manipolo di indipendentisti. Stiamo parlando ovviamente di Trieste, città dai nativi considerata per qualche oscura ragione asburgica ma che in verità altro non è che una delle tante realtà provinciali italiane.

Fatto sta che nel settembre 2013 il locale movimento indipendentista era riuscito a portare in piazza qualcosa come 20mila persone che in una città come Trieste in cui la metà della popolazione è composta da pensionati ed impiegati statali che dipendono da Roma non sono noccioline. Il nucleo portante della manifestazione è stato quello di chiedere l’applicazione integrale del Trattato di Pace del 1947, che tra la varie cose prevedeva l’istituzione di un fantomatico Territorio Libero di Trieste in verità mai nato e soprattutto del Porto Franco di Trieste. Capirete anche voi come a settant’anni e più dalla fine della Seconda Guerra, è mera utopia quello di richiedere l’istituzione di uno Stato mai nato o comunque soffocato sul nascere dalle contrapposizioni della Guerra Fredda. Sarebbe come se un gruppo parrocchiale chiedesse al Papa di restaurare l’Ordine dei Templari. Tuttavia la manifestazione, nella quale erano presenti migliaia di giovani, poteva essere un segnale ed un inizio di risveglio per una città e per un Nord Italia sempre più in arretramento rispetto all’Europa che conta (e che decide).

Ed invece alle comunali dell’anno scorso questo capitale di 20mila persone, circa un decimo dei residenti di Trieste, se non di più si è perso nelle polemiche e nelle divisioni tipicamente italiane; basti pensare che il movimento si è spaccato in tre tronconi in aperta ostilità tra di loro senza riuscire così a portare nessun consigliere suo rappresentante in comune. Questa mancata rappresentanza è stato un vero peccato anche con il senno di poi, visto che attrazioni turistiche strepitose (e tipicamente austriache) come il Castello di Miramare con il suo bellissimo roseto da tempo sparito, il tram di Opicina che tra qualche anno non ci sarà più e un’intera linea ferroviaria austriaca potenzialmente ancora utilizzabile ma che langue nell’abbandono sarebbero sufficienti ad esporre in modo plastico la decadenza della città. Intanto i pensionati aumentano ed i giovani se ne vanno nella Mitteleuropa…quella vera.

Non vi tedio ulteriormente con i problemi della mia città natale, che poi sono quelli di un intero paese. Il succo del mio discorso è che, mentre altri popoli magari anche sbagliando nelle loro valutazioni tentano di cambiare il loro futuro, qui tutto tace. Non sono invece rimasti zitti i milioni di tedeschi dell’Est arrabbiati e delusi da 28 anni di promesse a vuoto. Anche in Italia tutti sapranno che la Merkel è stata riconfermata per la quarta volta consecutiva alla guida della Germania. Tuttavia com’era prevedibile, i partiti della CDU e della SPD che hanno governato nella cosiddetta Große Koalition degli ultimi 4 anni hanno perso milioni di voti a tutto vantaggio della destra cosiddetta populista dell’AFD. Da più di un anno a questa parte sto tentando di smontare il mito per il quale il successo di quest’ultimo partito sia legato solo ed esclusivamente ad una recrudescenza del razzismo e perfino ad un ritorno di fiamma del neo nazismo.

La mia visione delle cose è che in verità in Germania è presente tuttora una parte considerevole del paese, corrispondente alle regioni orientali della vecchia DDR, che non ha beneficiato in alcun modo delle riforme politiche ed economiche attuate all’indomani della riunificazione. Stiamo parlando di milioni di persone che vanno dai trentenni – quarantenni che sono entrati per la prima volta nel mondo del lavoro durante le riforme cosiddette Hartz del governo socialdemocratico di Schröder della fine degli anni ’90, per arrivare ai giovani precari o disoccupati delle periferie di Berlino e di altre città minori come Dresda e Lipsia, senza sottovalutare quei lavoratori anziani o già pensionati che dopo la riunificazione furono costretti ad emigrare ad Ovest in cerca di un’occupazione. Quest’ultimi sono stati pagati in maniera inferiore rispetto ai loro colleghi Wessis ed inoltre fino ai giorni nostri sono stati vezzeggiati e considerati dei pezzenti, per dirla in punta di fioretto, dai loro “cugini” più ricchi.

Questo enorme e pericoloso fiume carsico di umiliazioni e rancori è definitivamente sfociato alla superficie visibile a partire dall’estate del 2015, dopo che la Mutti Merkel si era offerta di accogliere un milione di profughi siriani. A quel punto la rabbia ha iniziato a rivolgersi verso un partito, anzi all’epoca ancora movimento autodenominatosi in maniera emblematica “Alternativa per la Germania” – “Alternative für Deutschland (AFD), che da posizioni accademiche di critica dell’Euro si è via via trasformato in un movimento di destra anti – immigrazione. L’aiuto indiscriminato a chiunque si proclami profugo, che costa beninteso qualcosa come 26 miliardi di Euro all’anno di soldi pubblici, è stato la classica goccia che ha fatto saltare la diga. In verità avevo già in precedenza scritto che con una popolazione che entro 40 anni conterà un pensionato ogni tre abitanti le scelte non sono così libere, ma vediamo di non divagare troppo.

Questa mia teoria direi che è stata confermata dal responso delle urne; infatti se si osservano i dati delle elezioni generali tenutesi la scorsa domenica, non si può che notare come l’AFD si sia imposta soprattutto nei länder orientali ex DDR i quali si caratterizzano non già per una maggiore concentrazione di stranieri bensì per maggiori tassi di disoccupazione e povertà. Basti citare a titolo d’esempio il caso del land Sachsen, nel quale addirittura l’AFD si è affermata come primo partito! In questa ragione orientale non vi sono molti stranieri né tanto meno donne islamiche che girano con il burka, mentre il tasso di disoccupazione del 7,8% è molto più alto rispetto alla media nazionale. Questa tendenza a votare le ali estreme di destra e di sinistra del sistema si è riscontrata in tutti i länder che facevano parte della DDR che fu e nemmeno Berlino ha fatto eccezione, facendo registrare un contemporaneo crollo della SPD a favore della Linke che si è attestata al secondo posto con il 18% mentre l’AFD con il suo 12% è riuscita ad affermarsi in una città da sempre ad egemonia rossa.

Invece nelle regioni occidentali a maggior presenza straniera (soprattutto turca ed in generale musulmana) e che negli ultimi anni hanno goduto di un benessere stabile e di una disoccupazione bassa, il partito della CDU della Merkel (e del partito gemello CSU in Baviera) è stato premiato con il primo posto mentre i “populisti” di destra hanno sì acquisito percentuali importanti ma non hanno affatto sfondato com’è invece successo ad Est. Ciò significa che la narrativa ufficiale dei media e della sinistra, secondo la quale quelli dell’AFD altro non sono che nazi in cerca di una rivincita, non ha alcuna base solida. Questa valutazione del tutto superficiale ed anche supponente ha contribuito al 13% dei populisti e al loro terzo posto nella “classifica generale”.

Se si vanno ad analizzare i discorsi ufficiali del candidato socialista Schulz, per non parlare poi del suo imbarazzante confronto televisivo con la Merkel, si può notare chiaramente come la maggior parte dei suoi strali non siano andati contro la CDU, alleata fino a ieri nella grande coalizione, bensì contro i perfidi nazisti che attenterebbero alla vita democratica del paese. Il kapò, forse già ex a questo punto, dei socialisti non è uno stupido e sa bene che l’erosione della base elettorale della SPD proviene da quegli stessi ceti popolari che hanno sempre votato a sinistra e che si sono letteralmente stancati di assistere ad una politica di un socialismo sempre pronto ad aiutare i primi profughi o presunti tali piuttosto che investire risorse per quella parte del paese da troppi anni dimenticata se non umiliata. In fondo cos’altro avrebbe potuto fare? Il tentativo di frenare l’emorragia di voti a destra era l’unica strada che ancora gli rimaneva dal momento che attaccare un partito come la CDU con la quale si sono condivise le politiche economiche, sulla Russia e sui profughi degli ultimi 4 anni non sarebbe stato credibile. E difatti la SPD è sprofondata ai suoi minimi storici, come d’altra parte anche il partito della Cancelliera.

Ad ogni modo per chiunque sia interessato ad analizzare i risultati delle ultime elezioni tedesche divisi per regione e a compararli con le statistiche sui tassi di disoccupazione sempre divisi per land, consiglio i seguenti due link:

https://www.merkur.de/politik/endergebnisse-so-waehlten-einzelnen-laender-bei-bundestagswahl-zr-8715034.html

https://de.statista.com/statistik/daten/studie/36651/umfrage/arbeitslosenquote-in-deutschland-nach-bundeslaendern/

Und jetzt was wird es passieren? Succede che con tutta probabilità la Merkel tenterà di creare un governo di coalizione cosiddetto “Jamaica” dal colore degli altri due partiti interessati, ossia i verdi e i liberali. Nel frattempo la SPD ha fatto l’unica cosa possibile pena estinzione nell’arco dei prossimi quattro anni, cioè quella di rifiutare di governare ancora con la CDU e di andare quindi all’opposizione. A meno che non si vada ad elezioni anticipate, scelta azzardata che cozza con la tipica mentalità tedesca che aborra i rischi e desidera la tranquillità, il governo nero – giallo – verde si farà. Piuttosto che azzardare ipotesi di tenuta politica da qui ai prossimi quattro anni, vorrei invece soffermarmi su due aspetti che secondo me confermano una mia vecchia idea sulla politica tedesca. A mio modesto parere il sistema politico della Germania, lungi dall’essere un esempio di dinamismo e vera alternanza democratica, si caratterizza invece per una serie di elementi fissi che si ripetono ciclicamente. Uno di questi è la presenza di un personaggio autorevole se non in passato autoritario, il cosiddetto uomo anzi in questo caso donna forte, che prende in mano le redini del paese assumendosi in toto le responsabilità di un eventuale insuccesso se non di una catastrofe militare.

Il recente e scontato successo della Merkel, al governo senza interruzioni dal 2005, sembra confermare questa visione di una politica tedesca che si affida di volta in volta a figure carismatiche che dominano la scena per 15 – 20 anni consecutivi. La Signora Kasner è stata preceduta dagli 8 anni di Schröder, il quale a sua volta aveva spezzato il governo assoluto di Helmut Kohl che dalla fine degli anni ’70 si era protratto fino ai fluidi anni ’90 post – riunificazione. Prima dello statista fautore della riunificazione tedesca ed uno dei padri fondatori della UE, come dimenticare i cicli politici di Schmidt, Willy Brandt ed Adenauer? Prima dei governi democratici il mondo aveva assistito al ciclo di 12 anni di Sir Hitler, come veniva regolarmente definito dai diplomatici inglesi, e molto tempo prima di lui un altro ciclo egemonico, quello del Cancelliere di Ferro Bismarck, aveva posto le basi per la creazione del primo welfare state al mondo. Sembra perciò insito nella mentalità dei tedeschi, come avevo già avuto modo di scrivere nel mio precedente articolo, di liberarsi delle proprie responsabilità e di affidarsi a figure forti in grado di guidare il paese senza porsi troppe domande. Che questa sia la strada giusta per la Germania del 2017 difficile dirlo; facciamo solo notare che in Germania cicli lunghi 20 anni si sono sempre chiusi nell’ignominia (affaire Kohl sui finanziamenti illeciti per dirne una).

Il secondo elemento ciclico che potrebbe portare in un futuro prossimo all’ascesa delle ali estreme del sistema (AFD e Linke) è quello che vede un sistema di governo al quale hanno partecipato nel corso degli anni tutti i partiti presenti in questo momento nel Bundestag, con la sola eccezione della sinistra della Linke e dell’AFD. E’ una situazione che a qualche storico curioso potrebbe far ricordare il periodo transitorio della Repubblica di Weimar, nel quale quasi tutti i partiti nel corso delle diverse legislature avevano formato dei governi di coalizione che tuttavia si erano dimostrati inadatti a garantire ordine e benessere al paese, con le conseguenze che tutti noi conosciamo. Durante l’epoca repubblicana gli unici movimenti politici che rimasero sempre all’opposizione furono le ali estreme del sistema, ossia i comunisti a sinistra ed i nazionalsocialisti a destra. Le due epoche non sono ovviamente paragonabili ma tuttavia con il probabile governo CDU – liberali – verdi si verrebbe a riproporre una situazione analoga nella quale tutti i partiti hanno nel corso degli anni governato a fasi alterne la Germania. Un’eventuale crisi economica, causata magari dal crollo delle economie dei paesi dell’Europa meridionale, ed un conseguente rigetto del sistema potrebbero rivelarsi delle utili armi in mano all’AFD che dalla sua avrebbe anche il vantaggio di non essere mai stata al Governo, al contrario degli altri partiti. Un’eventuale turbolenza interna potrebbe inoltre far confluire nuovi voti alla Linke ma personalmente lo ritengo improbabile per due motivi. Il primo è che quest’ultimo partito è sempre stato all’opposizione in Germania mantenendosi sempre intorno al 10% o poco meno e non dando segnali di crescita; inoltre eventuali voti a sinistra verrebbero deviati dalla SPD anch’essa ora all’opposizione.

Tuttavia il vero pericolo interno alla Germania è che si pongano le basi per una potenziale guerra civile strisciante tra un est sempre più isolato e furibondo con le scelte di Berlino di aiutare gli stranieri, anche quelli immeritevoli, e quella sinistra che invece premerà sempre di più sull’acceleratore dell’integrazione per tentare di avere un serbatoio stabile di voti dai “nuovi tedeschi”. Purtroppo quest’ultimi partiti non hanno fatto i conti con i milioni di turchi che nei prossimi anni con il beneplacito di Erdogan provvederanno a fondare il loro di partito, che avrà lo scopo principale di integrare diritto islamico e diritto civile di stampo romanistico. Inoltre non è assolutamente scontato che i nuovi tedeschi nati al di fuori dell’Europa si dimostreranno progressisti nel segreto dell’urna; forse il caso di diversi russi del quartiere berlinese di Marzahn che da anni votano convinti NPD dovrebbe far suonare un campanello d’allarme. Di sicuro negli anni venturi analisti politici ben migliori del sottoscritto non rimarranno disoccupati.

 

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