La Nuova Via della Seta tra Italia e Germania

Uno dei temi geopolitici che più sta tenendo banco negli ultimi giorni sulla stampa italiana, e perfino su quella internazionale, è il recente memorandum d’intesa tra il governo italiano e la Repubblica Popolare di Cina. Tema centrale dell’accordo è l’intenzione di adottare una maggiore collaborazione futura tra i due Paesi, per quanto concerne il cosiddetto progetto cinese della Nuova Via della Seta. Questa ambiziosa visione prevede da parte di Pechino l’investimento di centinaia di miliardi di dollari nella costruzione di nuove infrastrutture, sia in Asia che in Europa, che possano permettere da qui ai prossimi decenni di far circolare merci via treni veloci tra i due continenti, quello asiatico e quello europeo. Le ferrovie ad alta velocità dovrebbero passare, se non lo stanno già facendo, in molte di quelle aree, come per esempio l’Asia Centrale e la Turchia, che nell’Alto Medioevo vennero percorse dall’esploratore veneziano Marco Polo. Il tragitto storico, che ora il governo cinese vorrebbe rispolverare, venne definito in tempi remoti come appunto Via della Seta, vista la notevole importanza che questo prezioso materiale, prodotto in Cina ed in altri paesi asiatici, ebbe per l’economia tessile europea. Da questo blog ne avevamo parlato in temi non sospetti, per l’esattezza il 15 maggio dell’anno scorso, con l’articolo, diviso in due parti, “La grande abbuffata”.

Città leggendarie come Samarcanda (ora in Uzbekistan), decantate dalla famosa ballata del nostro Vecchioni, potrebbero ritornare al loro vecchio splendore. Ma al di là di affascinanti reminiscenze storiche, questo progetto geopolitico made in China sta turbando chi fino a questo momento ha tentato in tutti i modi di frenare l’ascesa della Cina come prima potenza al mondo. Stiamo parlando anche di tutti quei governi americani che dal 1989 in poi si sono succeduti a Washington, i quali hanno finora garantito il controllo dei commerci marittimi sui 3 oceani mondiali, anche grazie all’ingombrante presenza dalla flotta statunitense. Il passaggio di milioni di tonnellate di merci provenienti dalla Cina e dirette verso uno dei mercati, ancora oggi nonostante la crisi, più prosperi del pianeta (e viceversa) attraverso l’hinterland euroasiatico, potrebbe portare al calo dei traffici marittimi, che finora hanno sostanzialmente contribuito all’ascesa delle potenze anglosassoni al ruolo di dominatori dei commerci internazionali, con le inevitabili ricadute politiche. In secondo luogo se in futuro gli europei, i cinesi e gli altri importanti Paesi coinvolti nel tragitto della Nuova Via della Seta, come la Russia e la Turchia per citarne solo due, dovessero decidere di pagare le transazioni in Euro, o in altra moneta, ciò potrebbe comportare la fine di quella che diversi analisti ed intellettuali, anche nostrani come il filosofo Diego Fusaro, definiscono la dittatura del dollaro. A mettere in guardia il governo italiano si è scomodato perfino il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Garrett Marquis, il quale in data 9 marzo ha twittato cheItaly is a major global economy and great investment destination. No need for Italian government to lend legitimacy to China’s infrastructure vanity project”.

Ma a turbare il sonno della ragione degli odierni padroni del discorso non solo sono i treni che dalle steppe mongoliche potrebbero portare non più orde di soldati famelici, bensì ricchezza e prospettive di sviluppo da tempo frustrate, ma anche i porti mediterranei del Sud Europea. Infatti questi ultimi non sono stati affatto esclusi dai piani cinesi, poichè l’idea fondamentale è quella di utilizzarli come primi approdi dei container che via Oceano Indiano, passando per il Canale di Suez, arriverebbero al Mediterraneo. Già diversi anni fa, nel pieno della drammatica crisi greca, l’azienda statale cinese di trasporti marittimi Cisco aveva rilevato buona parte del porto greco del Pireo, in quel momento in fase di privatizzazione a causa delle ineffabili politiche d’austerità imposte dalla Trojka, assicurandosi così la gestione per i prossimi 35 anni tramite regolare contratto. Già all’epoca, anche se stiamo parlando di soli 5 anni fa, vi fu chi aveva gridato al primo passo di una colonizzazione cinese dei “nostri” porti europei. Da alcuni anni a questa parte l’attenzione cinese si è invece spostata sui porti italiani, in primis Genova e Trieste, i quali vengono considerati dal punto di vista geografico come i primi punti d’arrivo dei beni provenienti da Shangai ed Hong Kong. Il memorandum, o accordo che dir si voglia, d’intesa del governo italiano con quello cinese si prefigge proprio lo scopo di aumentare la collaborazione sia commerciale che politica, come scritto nero su bianco nel preambolo, tra i due Paesi, oltre che contrastare l’unilateralismo ed il protezionismo commerciale, espressioni anch’esse visibili nella traduzione italiana del documento e che farebbero chiaro riferimento alle recenti politiche americane. L’accordo dovrebbe essere ratificato durante la prossima visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping, a meno di pressioni dell’ultima ora provenienti dall’altra parte dell’Oceano.

Finora già 13 paesi dell’Unione Europea hanno firmato accordi simili con Pechino. In realtà l’aspetto che preoccupa maggiormente gli Stati Uniti, ma anche l’Unione Europea politicamente egemonizzata da Berlino, è che l’Italia è stato il primo paese appartenente al G7, che ha deciso di tentare di potenziare i propri rapporti con quell’enorme nazione che, secondo alcuni analisti economici, ha già superato gli Stati Uniti d’America in termini di ricchezza totale. La prospettiva, come anticipato, non affascina per niente Washington per il timore che il dollaro perda la propria centralità negli scambi internazionali e per non vedere il proprio controllo dei mari ridotto ad inutile orpello, ma non sta nemmeno lasciando tranquilli i porti del Nord Europa. Se infatti in futuro i porti mediterranei di Genova, Trieste, Atene, ma anche quelli balcanici come Fiume e Capodistria, dovessero riacquistare una centralità persa dai tempi della scoperta dell’America, ciò potrebbe a sua volta significare un calo di commerci per gli scali di Rotterdam, Anversa, Amburgo e Brema, per citarne alcuni. Il motivo appare disarmante: se le navi cinesi, invece che dirigersi verso il Mare del Nord, propendessero per gli scali mediterranei, risparmierebbero fino a 6 giorni di navigazione. Tuttavia le ramificazioni ferroviarie dei porti nordeuropei con il retroterra sono per ora di gran lunga migliori rispetto a quelli italiani, per non parlare di quelli balcanici, anche se il governo cinese, evidentemente non legato al nostro dogma europeista del deficit del 3% e del pareggio di bilancio, negli ultimi anni ha investito miliardi su miliardi per costruire dal nulla autostrade e ferrovie, che possano un  giorno collegare Budapest a Belgrado e magari queste ultime al porto del Pireo.

Ad ogni modo i timori tedeschi di una decadenza dei loro porti, in primis Amburgo, sussistono eccome e basta una nostra vecchia conoscenza degli schermi televisivi come Tobias Piller a confermarli. L’inviato economico in Italia per il Frankfurter Allgemeine, lo stesso giornalista che qualche mese fa in una nota trasmissione televisiva si era lasciato andare ad alcune intemperanze verbali e perfino facciali con il direttore della Verità Maurizio Belpietro, lancia ufficialmente l’allarme. Dall’inserto economico dell’organo rappresentante gli interessi della piazza finanziaria di Francoforte, Piller scrive che, sebbene come già visto sopra i collegamenti ferroviari dei porti italiani con il Nord Europa non siano sviluppati come quelli degli scali tedeschi ed olandesi, il rischio è che comunque in un futuro prossimo le grandi navi da 20mila container, che fino a questo momento, lasciatesi alle spalle il Canale di Suez, si erano dirette verso Gibilterra e da lì al Nord Europa, possano in un giorno non molto lontano preferire i porti norditaliani di Genova e Trieste. Se il diavolo si vede dai dettagli, ebbene il giornalista tedesco, parlante anche italiano, ricorda al lettore come Trieste abbia messo in conto un piano di investimenti esteri (leggi cinese) da 1 miliardo, mentre il Punto Franco del porto giuliano, risalente addirittura ad una concessione imperiale asburgica di fine Settecento, potrebbe essere la carta decisiva da giocare per scalare la classifica degli scali europei con il maggior numero di traffici. Sul tema dei finanziamenti cinesi, nel memorandum d’intesa italo-cinese al paragrafo II, articolo 1, è presente la seguente significativa disposizione: “Le controparti lavoreranno assieme alla Banca di investimento asiatica per le infrastrutture (AIIB) per favorire la connettività nel rispetto delle finalità e delle funzioni della Banca”. A buon intenditore poche parole e non v’è da stupirsi di come Piller all’inizio del suo articolo dichiari come una nuova concorrenza minacci la Germania, in tedesco “auch Deutschland droht dadurch eine neue Konkurrenz”.

Quello che però Piller dimentica di scrivere è che il suo Paese è di fatto già da anni dentro il progetto cinese della Nuova Via della Seta. Infatti la città renana di Duisburg, quella stessa dove avvenne la strage di ndrangheta nell’agosto del 2007, è il punto di arrivo di un lungo viaggio ferroviario di circa 11mila chilometri. I treni, fino a 35 alla settimana, partono dalla città continentale di Chengdu, nella regione cinese dello Sichuan, passano attraverso le steppe russe e le pianure polacche, per poi arrivare nella città industriale di Duisburg in soli 12 giorni, anche se i cinesi vorrebbero ridurre i tempi a 10. Se si considera che fino al 2008 i tempi di percorrenza erano di 28 giorni, si può ben capire come la Germania e la Cina abbiano collaborato assiduamente per potenziare il reciproco commercio. Il sindaco di Duisburg, in un reportage dell’organo finanziario Handelsbatt dell’ottobre scorso, al fine di accattivarsi gli investitori provenienti dal lontano Oriente, aveva mostrato loro come in un raggio di 150 chilometri intorno all’area dell’Alta Renania, comprendente la sua città e che fino a pochi decenni fa era il cuore carbonifero della Ruhr, siano racchiuse qualcosa come 300mila aziende ed un mercato potenziale di 30 milioni di consumatori, se si considerano anche i vicini olandesi e belgi. Un altro paese mitteleuropeo di lingua tedesca è già coinvolto nel progetto; stiamo parlando dell’Austria che quasi un anno fa ha visto arrivare nella capitale Vienna il primo treno merci proveniente dalla Cina, con la prospettiva di abbattere i tempi e di farli arrivare ben più numerosi in soli 10 giorni, come accadrà con tutta probabilità a Duisburg.

E in Italia che si dice? Il governo giallo-verde, o verde-giallo vista la continua ascesa della Lega nei recenti sondaggi, è diviso. I grillini vedono male la TAV ma con favore una collaborazione con la Cina, mentre Salvini ed altri politici leghisti di primo piano, come il governatore del Veneto Zaia, parlano di “colonizzazione cinese” da fermare o, se non altro, ridiscutere. A Trieste non sono perfino mancati dei manifesti bilingui italo-cinesi, fatti circolare dall’ex senatore forzista Giulio Camber, la cui compagna Marina Monassi per anni è stata la Presidente dell’Autorità Portuale di Trieste, che si chiede polemicamente “chi dovrebbe garantire cosa e per chi”. Nel frattempo il suo capo politico Silvio Berlusconi, dalle pagine del “suo” Giornale accusa la Cina di portare avanti un’offensiva commerciale ed egemonica sulla nostra economica. Verrebbe da concludere il tutto con un’espressione tipicamente triestina, da sempre sinonimo di immobilismo, ovvero: “No se pol”. Non si può.

Una risposta a “La Nuova Via della Seta tra Italia e Germania”

  1. Ma che strano, all’Europa va più che bene che l’Italia sia in prima fila quando si tratta di accogliere (e poi tenersi a lungo) i migranti, ma se la sua posizione risulta privilegiata in ambito commerciale e rischia di fare buoni affari e magari di risollevare così la sua misera economia, allora tutti a straparlare di rischio sicurezza, di perdita di sovranità (come se adesso fossimo padroni a casa nostra, ah ah!) e addirittura di egoismo nei confronti dei nostri cari partner europei. Questo mi fa pensare che per una volta tanto il governo italiano (e Mattarella in primis) stiano facendo la cosa giusta.

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