Una giornata a Marzahn – Prima parte

Cari afecionados,

mi giungono dalle solite voci false e tendenziose gravi affermazioni che tentano pateticamente di smentire i clamorosi esiti dell’agenzia Bubez che dà il mio indice di gradimento a livello Thatcher – post guerra Falklands-Malvinas. Queste malelingue osano portare avanti la tesi secondo cui il numero dei miei lettori è minore rispetto a quello degli articoli da me scritti. Non spreco nemmeno inchiostro per rispondere a questi calunniatori di professione; sarà un’aula di un tribunale a pronunciarsi. Se italiana o tedesca, sarà tutto da vedere.

Ma non perdiamoci in inutili preamboli e continuiamo nella narrazione. Finalmente dopo tanto blaterare e vaghe promesse mi sveglio questo sabato mattina con la ferma intenzione di intervistare russi che vivono a Marzahn. Voglio capire essenzialmente cosa pensano della immagine che i media tedeschi danno del loro paese. Da quando è scoppiata la crisi ucraina è tutto un attaccare il regime putiniano: sembra quasi che non passi giorno senza che un giornalista venga ucciso o un territorio popolato da minoranze russe venga rivendicato dalla Madre Patria. Voglio capire appunto cosa pensano questi russi che vivono in un paese “democratico” come la Germania, e che quindi non sono influenzabili dai media di regime, dell’intera situazione.

Esco con passo da bersagliere dal mio appartamento di Neukölln e già nella S-Bahn ne approfitto per riordinare mentalmente i miei pensieri e per stilare una breve lista di domande sul taccuino che mi porto sempre dietro. Il morale è altissimo ma appena il vagone giunge all’altezza della stazione di Ostkreuz emerge dal profondo del mio animo una sensazione di torpore che piano piano invade l’intero mio essere. E’ un sentimento che mi riporta a mitiche pennichelle adolescenziali consumate sul divano dopo essermi rimpinzato di vongole e fritture marine oppure all’esaurimento nervoso e conseguente crollo psico-fisico che puntualmente mi coglieva dopo aver passato con un 18 politico esami universitari che sembravano delle forche caudine da cui non si poteva uscire che massacrati ed umiliati. Per non girarci attorno: mi sto letteralmente addormentando. Eppure la sera prima non aveva fatto bagordi inenarrabili: ero uscito con degli amici a prendere una birretta in un pub di stampo celtico ed ero tornato a casa addirittura in orari accettabili.

Fatto sta che per un motivo o per l’altro il mio corpo non ne vuole proprio sapere di supportare la mia mente malata nella missione di scovare l’orso russo. Arrivo a Marzahn e l’unica cosa che mi viene in mente è di fiondarmi nell’immenso centro commerciale della zona, vera e propria cattedrale del deserto, per bere un caffè che me lo possa tirare su…il morale! Individuo una pasticceria insolitamente elegante per il contesto e decido di farmi una dose di caffeina prima di partire per il fronte; il barista che mi accoglie per i suoi modi bruschi e autoritari deve essere per forza il padrone di casa. Nello sconcerto generale ordino un espresso e dopo un primo momento di panico le commesse cominciano ad armeggiare con un arnese che ha le sembianze di una macchina del vapore di inizi Ottocento. Il Gruppenführer, ehm intendo dire il proprietario della pasticceria, probabilmente per evitare che io osservi il metodo illegale di produzione del caffè, mi fa sedere e mi lancia un volantino che sembra essere un menu. Ma non avevo già ordinato? Dopo un’attesa che sembra eterna mi arriva da una dimensione extra sensoriale un oggetto bollente non identificato accompagnato da una bolla con su scritto in caratteri gotici 2,60 Euro. Mentre bevo per dimenticare, mi viene in mente un’idea che potrebbe veramente risvegliare la mia mente a metà tra l’oblio del sonno e lo sconcerto del furto legalizzato: tiro fuori un libro la cui lettura consiglierei volentieri alle giovani famiglie e agli adolescenti in cerca di svaghi nelle ore di stanca. Esso narra in forma teatrale le complicità e i silenzi del Vaticano ed in special modo del suo amministratore delegato Pio XII durante lo sterminio degli ebrei operato dai nazisti. Durante questa leggerissima e soave lettura il mio fisico crolla definitivamente come le twin towers durante la famosissima première teatrale della commedia a stelle e strisce intitolata “Guerra al terrore”.

Esco a passi strascicati e decido di prendere una boccata d’aria fresca. Avevo letto che in un certo viale denominato Mehrower Allee è molto forte la presenza russa e cosi penso bene di percorrerlo a piedi. Dovete credermi quando vi dico che non ho trovato nessuno: solo palazzoni e un traffico continuo dominano la scena. Ho quasi perso la speranza quando ad un tratto intravedo di fronte a me due tipici esemplari della fauna giovanile di Marzahn: il cappellino da baseball indossato grottescamente all’incontrario e i jeans larghi da rapper mancati mi fanno immediatamente capire che mi trovo davanti a due burini del quartiere. I due energumeni sono occupati in una conversazione all’apparenza coinvolgente tanto che muovono le braccia in maniera non propriamente tedesca, al che mi si riaccende subito la fiammella della speranza che era al lumicino: e se fossero veramente russi? Il particolare che farebbe pendere la bilancia a favore di tale ipotesi è che parlano un idioma all’apparenza incomprensibile; decido quindi di approfittare di un semaforo rosso e di accostarmi a loro per tentare di capire chi sono, da dove vengono, dove vanno. Il problema è che devo essermi avvicinato un pò troppo alla loro rigidissima zona di sicurezza poiché uno degli Eminem de noi altri mi dice con un tatto e una gentilezza che solo i tedeschi sono capaci: “Che cazzo vuoi?”. L’idioma incomprensibile altro non era che slang metropolitano.

Non mi ricordo esattamente se ho bofonchiato un Entschuldigung o se semplicemente me la sono filata con la coda tra le gambe. L’unica cosa che so è che mi ritrovo in un giardino pubblico dove un raggio di sole facendo capolino tra le nuvole mi indica una panchina libera. Colgo il segno divino e delibero seduta stante di concedermi una pausa tattica di 5 minuti prima di mettermi veramente all’opera. Mi siedo imbacuccato come un fante italiano durante la ritirata di Russia e per un attimo chiudo gli occhi vagheggiando di geopolitica caucasiana e di burini che mi ridono beffardi dietro. Mi sembra addirittura di entrare nella fase REM più profonda e di sognare di ragazze siberiane ricoperte solo di collane di caviale e con in testa un colbacco da sotto-ufficiale del Kgb che mi accolgono nella loro dacia dopo una giornata di sangue, sudore e lacrime passata ad intervistare i loro simili, quando un rumore improvviso mi riporta alla dura realtà. Apro gli occhi ed intravedo la sagoma di un aeroplano che sta per atterrare e che scompare subito dopo dietro i grattacieli di cemento. Due minuti dopo la medesima scena si ripete e così per circa ogni 2 – 3 minuti. Comprendo cosi di trovarmi non molto lontano dall’aeroporto di Schönefeld e che quella zona non è sicuramente la più adatta per concedersi una siesta. In tutto questo noto che le non poche famiglie che passano di fronte a me coi loro figli mi guardano in maniera strana e divertita come se trovassero bizzarro che uno possa utilizzare una panchina per riposarsi. Forse hanno intravisto qualcosa di grottesco nel mio sguardo folle che li ha particolarmente colpiti e divertiti o probabilmente questa panchina viene di solito utilizzata per altri scopi. O più semplicemente faccio solo pena…

Guardo l’orologio e scopro sconcertato che mi trovo in quel parco da più di un’ora! Tuttavia il sonno mi ha fatto bene e decido di riprendermi completamente bevendo un altro caffè. Entro, non so neanch’io bene il perché, in un kebab nella cui vetrina balzano agli occhi delle salsicce diciamo non propriamente tipiche della tradizione anatolica. Sempre più disincantato dalla fattibilità del mio progetto e più in generale dalla vita, chiedo se servono anche del caffè. Ovviamente no ma il turco di turno (piaciuto il gioco di parole, eh?) mi indica una porta che sembra essere l’ingresso di un comune cesso di periferia ma che in verità nasconde un altro locale a cui è collegato il kebab stesso. Incredulo e sognante vedo solo vecchi silenziosi seduti ai tavolini con in mano un bicchiere di mezzo litro di birra chiara. Non ce n’è uno solo che ne sia privo. L’inserviente è una butterata di mezz’età vestita di una tuta blu a strisce bianche che prima di chiedermi cosa voglio ordinare, sembra quasi mi voglia chiedere cosa ci faccio qua. Dico solo “Kaffe” ed anche in questo caso un’attesa apocalittica sforna un tazzone proveniente da un’altra epoca al cui interno galleggia un liquido bruno-rossastro, che potrebbe ricordare le acque di Marghera durante i periodi di massimo inquinamento ambientale. Se non fosse per lo zucchero da me aggiunto e che mi viene servito in un bicchierino da liquore, avrebbe potuto essere stato spacciato tranquillamente per del comune tè. L’aroma indistinguibile del liquido da me artificialmente inzuccherato non è purtroppo in grado di svelare l’arcano e quindi il mistero rimarrà per sempre insoluto.

Bevo oramai senza più pensieri la pozione alchemica e, mentre contemplo muto ed imperturbabile una delle clienti sdentate che tenta disperata un approccio con un vecchio paffutello e canuto, sento in lontananza la sirena di una volante della Polizei che si avvicina veloce…

(…continua)