Il trasloco di Soros a Berlino 2/2

Comunque sia, ora la patata bollente passa alla Germania del sempre più fragile governo Merkel. La citata decisione di George Soros di trasferire il suo quartier generale da Budapest a Berlino è altamente simbolica. Si potrebbe altresì definire come una retorica ma al tempo stesso coerente discesa nel bunker di un paese, che negli ultimi anni ha applicato alla lettera sia le direttive atlantiche sia quelle mondialiste. Non fu infatti il governo Merkel, fedelmente spalleggiato dai socialisti al potere, ad aver eseguito l’ordine di Obama di sanzionare la Russia del ribelle Putin dopo i fatti di Ucraina? E non fu sempre la grande coalizione della Signora Kasner ad aver aperto la porta a milioni di musulmani, applicando coerentemente il dogma moderno della società multiculturale? Si potrebbe dire come da anni la Germania abbia spalancato le braccia all’ideologia dell’open society, ben prima del suo trasferimento ufficiale sul terreno. Tuttavia, nonostante la fedele osservanza degli ordini provenienti dall’alto, non tutto è filato liscio come doveva. In primo luogo la politica delle porte aperte ha contribuito sia a rinsaldare il club di Visegrad, composto dai paesi europei dell’Europa centrorientale cui di fatto si è aggiunta recentemente anche l’Austria, sia a contribuire all’impensabile fino a qualche anno fa Brexit britannica, che si è affermata anche a seguito di un maggior desiderio di controllo dell’immigrazione da parte di una parte preponderata della popolazione. Senza contare le sempre più pericolose tensioni tra l’Italia “populista“ ed il resto d’Europa sul tema in questione. Tutto questo in aperto contrasto con le scelte intraprese dalla grande coalizione tedesca, senza una vera opposizione in parlamento e con l’intervento costante di una stampa interna filo-governativa. Una mancanza di vero dibattito interno libero da pregiudizi e dalle stantie accuse di nazismo ha permesso inoltre la crescita di un movimento, nato nel 2013 dall’idea di alcuni professori universitari critici dell’euro, denominato in maniera altrettanto simbolica come Alternativa per la Germania“, il quale in questo momento viene dato dai sondaggi come la seconda forza politica del paese. Le sinistre di governo ed opposizione, unite dalla difesa dell’Europa e dell’immigrazione senza limiti, non hanno fatto altro che ignorare il problema, per poi ripetere all’unisono quanto fossero “fascisti” gli appartenenti all’Afd, lasciando così che milioni di elettori delusi da 30 anni di promesse a vuoto a seguito della riunificazione tedesca voltassero loro le spalle.

Ad ogni modo quando un fronte sta per crollare, il primo pericolo da fronteggiare è quello interno. A prescindere dai recenti fatti di Chemnitz, gestiti prima in maniera omertosa e poi cercando il capro espiatorio nel capo dei servizi Maaßen, a partire dal Wir schaffen das” dell’estate del 2015 il paese ha assistito ad un repentino peggioramento della vita urbana in termini di sicurezza, fenomeno causato proprio da un’immigrazione senza controllo. Il trasferimento dell’open society a Berlino rappresenta dunque l’ultima battaglia di un movimento culturale, basato sul liberismo selvaggio da una parte e da un falso umanismo portato avanti dai ceti più ricchi della società, che ha accecato le sinistre di tutta Europa gettandole verso la difesa di valori del tutto minoritari in confronto a quelli di milioni di lavoratori costretti invece a competere sempre verso il ribasso con i nuovi arrivati. Questo contrasto potenzialmente distruttivo è visibile in Germania anche per ragioni storiche: fin dal 1999 la SPD, che ricordiamo essere il più antico partito socialista d’Europa, aveva accettato senza riserve i nuovi dogmi neoliberistici; da quella decisiva virata politica il valore di una persona non era più dato dalla sua ascesa sociale, garantita anche grazie ad uno Stato forte in grado di aiutare i ceti poveri, bensì dalla sua mera partecipazione al mercato, che di contro avrebbe regolato tutti i desideri degli individui senza contrasti nè tensioni. Per chi non avesse avuto la bravura o la fortuna di usufruire delle miracolose doti del mercato, ci avrebbe pensato un sussidio sociale minimo da 400 Euro mensili con l’aggiunta della copertura statale di alcune spese, come l’affitto e l’assicurazione sanitaria, per reprimere alla fonte eventuali proteste.

Tuttavia le riforme socialiste Hartz hanno precarizzato milioni di persone, spesso costrette a lavorare nei mini jobs da 450 Euro al mese, e reso più povere altrettante. Spesso abbiamo citato come in Germania un bambino su sette sia a rischio povertà, mentre lo stesso Spiegel di qualche giorno fa ha scritto come molti anziani decidano di continuare a lavorare anche anni dopo il raggiungimento dell’età pensionabile poichè non riescono a condurre una vita dignitosa. I nodi stanno dunque venendo al pettine ma, tanto per cambiare, la Germania non si distingue certo come nazione rivoluzionaria. Ancora una volta Berlino si dimostra una città conformista e timorosa dei risvolti rivoluzionari; le centinaia di migliaia di bravi cittadini, che sono scesi in piazza sabato 13 ottobre contro l’odio e il razzismo, hanno di fatto partecipato ad una dimostrazione filo-governativa. Non sarà  forse un caso che abbiano deciso di manifestare il loro sdegno (dopo settimane di propaganda a tappeto) qualche ora prima delle elezioni bavaresi, nelle quali un partito come la CSU da anni critico delle politiche immigrazioniste della Merkel ha perso un numero rilevante di voti. Con tutta probabilità  è anche un mero accidente il particolare che lo slogan principale dei dimostranti sia stato quello a favore di una offene Gesellschaft, che altro non è che l’esatta traduzione in tedesco di open society” di sorosiana memoria. In realtà questa non è la prima manifestazione filo-governativa (perchè di questo si tratta) a favore delle politiche del governo Merkel; già il 27 maggio una legittima manifestazione a Berlino dell’unico partito d’opposizione in Parlamento, ossia l’Afd, era stata disturbata da una contromanifestazione di centri sociali e perfino dei maggiori club techno berlinesi, dove ogni finesettimana la miglior gioventù occidentale si imbottisce di droghe. Probabilmente saranno solo coincidenze ma da quando l’open society ha trasferito i propri uffici a Potsdamer Platz, sono aumentate le manifestazioni di cittadini contro i perfidi nazi onnipresenti, contro l’islamofobia, contro l’odio e favore di una società accogliente. Sempre il principale organo mondialista dello Spiegel qualche giorno fa si è compiaciuto di come la capitale tedesca sia stata teatro negli ultimi mesi di un numero record di cortei e manifestazioni.

Lo scopo ultimo è quello di creare i presupposti per una guerra civile strisciante: da una parte un’unione di cittadini privilegiati, che non vivono certo nei quartieri ghetto dove le violenze dei migranti integrati sono all’ordine del giorno e che hanno molto da perdere da un eventuale crollo del regime merkeliano; dall’altra parte un raggruppamento di altrettanti cittadini impoveriti invece dalle politiche neoliberistiche e soprattutto veri sconfitti della riunificazione tedesca, i quali come visto non si riconoscono più in una sinistra concentrata a difendere gli stranieri e la finanza. Anche qua non ritengo casuale il fatto che l’Afd non peschi la maggior parte dei suoi consensi tra i Länder a più alta concentrazione di stranieri, bensì in quelli orientali che facevano parte della DDR e dove la povertà è più diffusa. Per esempio nelle recenti elezioni bavaresi hanno preso circa il 10%, mentre percentuali ben maggiori avevano ottenuto nella Germania orientale in precedenti consultazioni. Altro esempio: il ricco e benestante centro di Monaco ha assistito al trionfo dei verdi, da sempre liberisti e fautori di un’Europa federale. Nello scontro tra fasce sociali della popolazione tedesca vengono strumentalizzati senza pietà  gli stranieri, tra cui soprattutto i siriani appena arrivati. Il desiderio della classe politica berlinese è quello di renderli i fedeli difensori della società, anche perché – si sa – la generosa Mutti li ha salvati dalla guerra e morte certa. Già un anno fa avevo riportato come la capitale fosse stata invasa da centinaia di manifesti, nei quali migranti sorridenti dichiaravano di amare la società tedesca e di essere totalmente integrati nei suoi valori. Invece nella seconda ondata propagandistica a base di volantini diffusi ad ogni stazione ferroviaria altrettanti stranieri ammettevano di essere resistenti, affidabili, volenterosi, pronti a lavorare mentre sullo sfondo erano visibili scenari di guerra e distruzione. Lo scontro è insomma totale e presenta già i dettagli di una vera guerra civile, per ora combattuta a colpi di slogan.

Ciò che potrebbe far sorridere, anche se a me inquieta facendomi raggelare il sangue, è il continuo rimando da parte dei manifestanti di sinistra e degli altri filo-governativi all’amore contrapposto all’odio di chi invece si oppone alle politiche sull’immigrazione. Il pensiero ricorre inevitabile allo slogan orwelliano dell’amore è odio. Non si discute in maniera razionale sulle scelte governative, soppesandone i pro e contro, bensì si getta il dibattito (inesistente) sul piano sentimentale, rinunciando seduta stante ad una discussione intelligente. E’ un altro sintomo della decadenza dell’Occidente, che evidentemente ha deciso di suicidarsi. Per gli italiani che hanno ancora un po’ di memoria, si potrebbe perfino citare Berlusconi quando dai palchi proclamava che il suo era il partito dell’amore, contrapposto ai perfidi comunisti che sapevano solo odiare. Forse si potrebbe arrivare fino ai tempi del radicale Pannella e del partito dell’amore di Cicciolina, che secondo alcuni analisti come Paolo Borgognone erano in verità il vero cavallo di Troia per lo sdoganamento di alcuni falsi valori, ma per ora ci basti sapere che un vero dibattito senza paraocchi in Germania non esiste. Bisogna solo fomentare l’odio reciproco tra cittadini in nome dell’amore e ribadire che es gibt keinen Platz für Nazis, così definiti anche quei normali cittadini che quindi devono nascondere le proprie opinioni per sfuggire all’infame marchio. I veri temi caldi che hanno e continuano a dividere l’opinione pubblica tedesca, la riunificazione post ’89 e l’integrazione fallita di milioni di stranieri, rimangono sullo sfondo e raramente vengono toccati, quasi fossero dei tabù. Probabilmente il timore è di ammettere che due processi portati a compimento fin dall’inizio da governi tedeschi, con relativa acquiescenza o consenso della maggioranza dei cittadini, siano stati fallimentari

In tutto questo l’open society avrà un ruolo decisivo non tanto nel salvare la posizione della Merkel, la cui caduta personale è ormai una questione di tempo, quanto per accompagnare il suo futuro successore all’interno del medesimo solco seguito negli ultimi anni. Per amministrare il caos bisogna prima crearlo ed il terreno di una Germania mai come ora divisa ed impoverita, nonostante l’enorme surplus commerciale, è fertile. Per tale motivo la battaglia dev’essere seguita e preparata da Berlino e non più dalle capitali orientali, che come visto sono ormai perse. Se aggiungiamo che la Germania rimane il paese più ricco d’Europa che sta amministrando un continente sempre più impoverito ergo a rischio di frantumazione, allora il trasloco della base operativa a Berlino non avrebbe potuto conoscere tempistiche così azzeccate. Il Nostro confida giustamente nell’innato conformismo del tedesco della strada, che odia le rivoluzioni e che ha in terrore i grandi rivolgimenti che gli possano compromettere lo status quo. Nel frattempo, come diverse volte riportato su questo spazio, una recente legge tedesca si è portata avanti nel lavoro obbligando i social a cancellare in maniera discrezionale i commenti che inneggerebbero al razzismo. Per concludere lo scorso sabato centinaia di migliaia di persone hanno risposto all’appello per la salvaguardia dell’ordine minacciato, dando così il fianco all’unica opposizione possibile in mancanza di un’autentica libertà ed apertura mentale, ossia quella violenta.

PS La foto in copertina raffigura la sede berlinese del prestigioso e “libero” quotidiano tedesco die Welt, che casualmente si trova all’interno dello stesso palazzo (vicino Potsdamer Platz) che ospita l’Open Society di Soros.

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