Il declino economico tedesco nei dettagli

Allora, come già detto e ripetuto fin quasi alla noia anche dagli stessi media italiani, la Germania è tecnicamente entrata in recessione. Nel secondo trimestre (aprile – giugno) di quest’anno il PIL tedesco è calato dello 0,1%, ponendo la Germania al penultimo posto nella classifica dei Paesi europei che meno sono cresciuti finora durante quest’anno corrente. All’ultimo posto ci troviamo, tanto per cambiare, noi italiani. Qualora il PIL dovesse calare anche nel terzo trimestre, ipotesi ritenuta plausibile da diversi economisti interni, sarebbe un caso unico per la Germania, a meno che non si voglia tornare indietro ai trimestri compresi tra il 2008 e il 2009, agli anni cioè immediatamente successivi allo scoppio della bolla finanziaria americana. Sempre in tema di crisi economica tedesca, nell’articolo pubblicato una settimana fa abbiamo dato conto di come la produzione industriale sia calata del 2% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso, mentre la fiducia dei manager privati delle 800 aziende più grandi del Paese, molte delle quali quotate in borsa, è a circa 41 punti, ben al di sotto del valore di 50, considerato come un coefficiente simbolico per accertare una ripartenza economica, seppur minima. Anche la fiducia generale delle imprese è calata al valore minimo di 95 punti, che non si riscontrava dal biennio 2012/13, quello più duro della crisi economica per le economie europee. Infine, anche la punta di diamante della Germania, quelle stesse esportazioni che hanno posto il Paese governato dalla Signora Merkel al primo posto al mondo, stanno conoscendo un periodo di difficoltà: il calo dell’1,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso è la spia dei timori di quelle imprese maggiormente dipendenti dall’export di fronte alla Brexit sempre più vicina e alla guerra commerciale con gli USA di Trump.

Mentre quest’articolo viene scritto, ci ha pensato anche il World Economic Forum a confermare il declino dell’economia tedesca, anche solo rispetto ad 1 anno fa. Se infatti nel 2018 la Germania si era collocata al terzo posto tra le nazioni più competitive al mondo, per quest’anno invece il Paese, considerato da molti “esperti” nostrani come la locomotiva d’Europa, è scivolato addirittura al settimo posto. I primi 6 posti sono occupati, dall’alto in basso, da Singapore, gli Stati Uniti, Hong Kong, i Paesi Bassi, la Svizzera ed il Giappone. I maggiori punti negativi, nei quali la Germania non eccelle affatto nonostante la propaganda interna e soprattutto esterna indirizzata alle opinioni pubbliche europee, sono i seguenti: digitalizzazione ed infrastrutture per Internet (36esimo posto), solidità del sistema bancario (64esimo posto), costi per fondare un’impresa (72esimo posto), costi legati alla criminalità organizzata (74esimo posto), entità delle tasse (99esimo posto) ed infine flessibilità dei salari (102esimo posto). Invece i punti di forza dell’economia tedesca, che ancora tengono duro sono: stabilità economica e capacità di innovazione (1° posto), ricerca e sviluppo (8° posto) ed infine trasparenza così come lotta alla corruzione (11esimo posto).

Questo subitaneo calo in soli 12 mesi, dal terzo al settimo posto, non è certamente legato alla sola Brexit e alla guerra commerciale in itinere, ma anche a quel nodo gordiano, che vede la Germania degli ultimi anni essersi concentrata sul solo export a dispetto invece degli investimenti sulle infrastrutture e sulla ricerca, considerati insufficienti da molti illustri economisti, anche Premi Nobel, oltre che recentemente perfino dal Fondo Monetario Internazionale. Inoltre quel miserrimo 102esimo posto sulla flessibilità dei salari altro non è che uno squarciamento di quel velo di Maya, tenuto in piedi dai vari governi tedeschi da Schröder in poi, secondo il quale è giusto e doveroso bloccare i salari interni, tenendo così ferma anche la domanda interna in un clima generale di svalutazione, per poter rimanere competitivi sui mercati internazionali. In secondo luogo la precaria solidità del sistema bancario interno, complice il rischio di fallimento per la Deutsche e la Commerzbank, dovrebbe far riflettere quei politici italiani che hanno costretto i grandi correntisti e gli azionisti nostrani a salvare le banche popolari locali tramite il controverso bail-in, impostoci a sua volta dall’Unione Europea. E’ notizia di questi ultimi giorni che la Deutsche Bank intende licenziare 20mila dipendenti, di cui 9mila nella sola Germania. La rivale Commerzank, che sembrava sul punto di fondersi con essa all’inizio dell’anno, ha in programma di chiudere 200 filiali. Infine la pessima posizione sui costi legati alla criminalità organizzata dovrebbe far aprire perlomeno un dibattito in un Paese, nel cui codice penale non è mai stato presente il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e nel quale (caso unico in Europa) non esiste un limite legale all’utilizzo del contante. E per una volta non stiamo parlando dell’Italia.

La classifica sulla competitività internazionale dovrebbe anche essere interpretata come un sonoro schiaffo a quei molti economisti neoliberisti, che hanno sempre visto come fumo negli occhi il debito pubblico. Infatti i 2 Paesi con i rispettivi più alti debiti pubblici al mondo, ovvero gli Stati Uniti ed il Giappone, sono messi meglio della Germania, che invece ha fatto della politica degli “0 debiti” uno dei propri cavalli di battaglia in Europa. Ulteriore curiosità: l’articolo sulla perdita di competitività mondiale della Germania era presente anche sul quotidiano tedesco die Welt sotto l’eloquente titolo: “Germania, la più grande perdente tra le nazioni UE”. Ulteriori commenti risulterebbero superflui. Altri dati negativi, che con l’hard Brexit sempre più imminente potrebbero esacerbare le già esistenti tensioni interne, sono i seguenti: il primo è che dopo 20 anni di ordoliberismo, iniziati con le riforme del mercato del lavoro e della rimodulazione dei sussidi sociali fortemente volute dal governo socialdemocratico di Schröder alla fine degli anni ’90, il numero dei poveri è aumentato a dismisura, tanto che si è calcolato che la metà della popolazione tedesca, ovvero qualcosa come 40 milioni di persone, possegga un misero 1% della ricchezza totale del Paese. A riportare il dato non è qualche oscuro blog complottista, bensì il quotidiano bavarese della Süddeutsche Zeitung. La seconda notizia negativa per la Germania, alla vigilia dei dazi incrociati angloamericani contro il proprio export monstre, è che da 15 mesi consecutivi a questa parte gli ordinativi della propria industria sono calati ad ogni trimestre.

Questo è il quadro generale, che non dovrebbe far dormire sonni tranquilli. Anche perché se l’economia tedesca dovesse crollare, l’effetto domino per tutta l’Europa sarebbe garantito. Ma quali sono le regioni tedesche che già ora stanno pagando di più il conto della crisi? Ebbene in maniera sorprendente nessuna di esse si trova ad est, ossia nella parte più povera del Paese, bensì tutte le regioni maggiormente esposte con l’export si trovano ad occidente. Le prime 3 regioni (Bundesländer) che hanno visto un maggior calo del proprio Pil rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso sono nell’ordine: la Rheinland-Pflalz, la città-stato (anch’essa formalmente una regione alla pari delle altre) di Brema e la Saarland, governata quest’ultima negli ultimi 8 anni dalla AKK delfino della Merkel, con cali rispettivamente dello 0,9 e le ultime 2 entrambe dello 0,4%. Non c’è comunque in verità granchè di cui stupirsi, se si conosce la struttura industriale della Germania. L’ovest del Paese, al contrario delle regioni orientali che all’indomani della riunificazione vennero letteralmente deindustrializzate, è il suo vero cuore economico. Se si ferma lei, sono guai per tutti, non solo per i tedeschi. Facciamo qualche esempio pratico per capire l’entità della crisi: per esempio a Brema (-0,4%) non si trova nessuna sede legale di qualche casa automobilistica tedesca, ma comunque la Daimler ha qui una delle sue fabbriche più importanti. La dipendenza della città-stato dal settore delle esportazioni già ora sta causando un gran numero di problemi.

Tenga conto il lettore che diverse compagnie eoliche o aeronautiche come la Airbus hanno sede qui; parliamo di migliaia di posti di lavoro a rischio per via del calo degli ordinativi già visto in precedenza. Tuttavia, uno dei settori più importanti legato indissolubilmente alle esportazioni è per certo quello portuale. A pochi chilometri di distanza da Brema, andando verso ovest, è situato uno dei più importanti porti tedeschi dopo Amburgo: Bremerhaven. Se l’export tedesco crolla, crollerà anche Brema. La città, conosciuta all’estero per la celeberrima favola dei 4 animali musicanti dei fratelli Grimm, da anni è tra le regioni tedesche con il più alto tasso di disoccupazione ed emarginazione sociale; a Brema, così come nella capitale Berlino, 1 bambino su 3 vive sotto la soglia di povertà. Con la Gran Bretagna a poche ore di navigazione, qualora i dazi e le tariffe doganali dal lato inglese dovessero essere applicati a causa della hard Brexit, le prime conseguenze visibili potrebbero essere sia un aumento del tasso di disoccupazione sia un innalzamento, già ora preoccupante, della violenza politica. Forse i lettori, che seguono da più tempo questo blog, si ricorderanno che proprio a Brema all’inizio di quest’anno venne quasi ucciso un parlamentare dell’Afd, dopo essere stato aggredito all’uscita di un teatro da alcuni giovani mascherati, gravitanti intorno all’area dell’estrema sinistra extraparlamentare. Gli assalitori non sono ancora stati individuati. Un’altra particolarità legata a Brema è che questa grande città, assieme ad Amburgo e ad alcune regioni industriali situate ad Occidente come la Ruhr, è una delle ultime roccaforti elettorali dei socialdemocratici della SPD. Un eventuale scoppio della disoccupazione di massa potrebbe causare un’ulteriore emorragia di voti da un partito già da anni in forte crisi d’identità, ma avremo modo di tornare sull’argomento in seguito.

Anche altre regioni occidentali fortemente specializzate nella costruzione di autoveicoli da esportare all’estero come il Baden-Württemberg e la Bassa Sassonia sono cresciute meno della media tedesca, che già col suo +0,4% rispetto all’anno scorso si situa al penultimo posto in Europa. Il Baden-Württemberg, ad esempio, è alle prese con la stagnazione: il PIL non è cresciuto rispetto all’anno precedente. E stiamo parlando di quella regione tedesca che viene considerata, assieme alla Baviera, quella con il più alto Pil pro capite del Paese, insomma la più ricca della Germania. Case automobilistiche come la Daimler o la Porsche hanno sede qui e producono gran parte delle loro macchine. Inoltre, case fornitrici dell’indotto come la Bosch, la ZF Friedrichshafen o la Mahle provengono anch’esse dal Baden-Württemberg. Ultimamente un importante fornitore del settore come Eisenmann è andato in insolvenza; anch’esso aveva sede legale nel Württemberg, a Böblingen. Invece la seconda regione industriale in crisi accennata sopra, ossia la Bassa Sassonia, comprende la cittá di Wolfsburg, sede legale ed industriale della Volkswagen. Nella sola fabbrica, situata a poca distanza dalla città, vi lavorano 63mila persone, senza contare l’indotto.

Un altro mostro sacro dell’industria tedesca, il cui marchio è famoso in tutto il mondo, sta conoscendo una gravissima crisi. Il principale fornitore di ricambi auto Continental sta chiudendo gli impianti e tagliando 7.000 posti di lavoro. Secondo un rapporto del quotidiano finanziario Handelsblatt, Continental prevede di razionalizzare 20.000 posti di lavoro in tutto il mondo entro il 2029. In Baviera la produzione di componenti per motori a benzina e diesel nella città di Roding dovrebbe essere interrotta entro il 2025, presso i siti di Babenhausen e di Limbach-Oberfrohna. Dopo l’insolvenza del tradizionale costruttore di impianti Eisenmann, questo è il secondo grande fulmine a ciel sereno per l’industria automobilistica tedesca. Un altro celeberrimo marchio automobilistico, questa volta francese ma con un’importante filiale in Baviera, non sta attraversando un bel periodo. Stiamo parlando della mitica Michelin, produttrice storica di gomme per autoveicoli, che ha recentemente deciso di chiudere uno stabilimento ad Halstadt, nella Franconia bavarese, entro il 2021. 858 lavoratori verranno licenziati. A sentire il management, troppi pneumatici economici da 17 e 18 pollici provenienti dalla Cina o dalla vicina Europa orientale hanno inondato il mercato europeo; sfortuna vuole che l’impianto tedesco si sia specializzato nella fabbricazione di pneumatici da 16 pollici, meno richiesti sul mercato rispetto a qualche anno fa. Produrne quelli da 17 o 18 non conviene comunque perché i costi del lavoro di un operaio polacco o slovacco, per non parlare di uno cinese, sono infinitamente inferiori rispetto a quelli per un operaio specializzato tedesco, uscito da almeno 2 se non 3 anni di corso di formazione finanziato dal ricco Land della Baviera ed iper-protetto (qualche ideologo del libero mercato direbbe privilegiato) dal punto di vista sindacale. E’ la globalizzazione, bellezza e nemmeno la Germania può farci niente!

Come se non bastasse, anche nel mercato cinese, considerato per lungo tempo l’ultima risorsa per i produttori, le vendite di auto sono calate; da qui la flessione negli ordinativi, i licenziamenti di massa o, come extrema ratio, la chiusura degli impianti. Già ora diverse fabbriche stanno adoperando lo strumento legislativo del “lavoro corto” – Kurzarbeit – che in caso di crisi economica prevede un accordo tra i sindacati e il management di un impianto a rischio chiusura, grazie al quale i lavoratori lavorano meno ore e vengono logicamente pagati di meno. In cambio però i dipendenti ricevono l’impegno scritto da parte del datore di lavoro che non verranno licenziati. In più le ore in meno non lavorate vengono comunque parzialmente pagate dall’Agenzia Federale del Lavoro tramite un assegno sociale, pari al 60% dell’ultima busta paga netta o al 67% se si ha figli. Se per esempio in una grande fabbrica automobilistica 100 lavoratori invece che i normali 5 giorni settimanali ne lavorano 4 ed il quinto rimangono a casa, quest’ultimo viene comunque parzialmente coperto dal suddetto aiuto statale. Detto altrimenti: il contribuente tedesco sta salvando centinaia di migliaia di lavoratori, disposti a lavorare di meno, dal licenziamento certo solo grazie alle proprie tasse versate allo Stato. E’ insomma una specie di cassa integrazione in salsa tedesca.

L’ultima volta che il Kurzarbeit venne impiegato in dosi massicce fu durante tutti gli anni ’90 solo ed esclusivamente nei Länder orientali ex DDR appena annessi, pardon riunificati, dalla Germania Ovest. Va fatto notare che durante quelli anni turbolenti il tasso di disoccupazione tedesca si era posizionato stabilmente sulle 2 cifre, tant’è che nel 1998 l’Economist se ne uscì con l’eloquente copertina intitolata “Germania, il grande malato d’Europa”. Inoltre anche nel periodo più delicato della recente crisi economica mondiale, ossia tra il 2008 ed il 2009, migliaia di grandi aziende manifatturiere si videro costrette a farne uso, coinvolgendo più di 1 milione di lavoratori. Dal punto di vista legislativo Il “lavoro corto” viene regolato dal cosiddetto Libro Sociale e di norma ha una durata massima di 12 mesi, anche se in diversi casi di grave crisi economica, rigorosamente previsti dalla legge, può arrivare fino ad un limite invalicabile di 24 mesi. Ad ogni modo sembra che la crisi automobilistica e, più in generale, industriale in Germania sia appena all’inizio. La rivista di settore Automobilwoche riferisce che la crisi del settore automobilistico abbia raggiunto anche gli assicuratori del credito. Il rischio di insolvenza sta aumentando in modo significativo, con incertezze particolarmente elevate derivanti da accordi con fornitori e concessionari di automobili in tutta Europa ed anche in Cina. In Germania i fallimenti delle imprese nel settore automobilistico sono aumentati di almeno il 2% solamente per quest’anno.

Si provi solo ad immaginare cosa potrebbe accadere ulteriormente al settore in termini di chiusure e licenziamenti se solo il “clown Boris”, come qui viene comunemente chiamato il Primo Ministro britannico Johnson anche grazie ad alcune eloquenti copertine dello Spiegel, decidesse di premere il pulsante rosso dei dazi contro le esportazioni provenienti dalla Germania, pardon dall’Unione Europea, all’indomani della Brexit without a deal. Secondo il quotidiano die Welt, le maggiori aziende industriali tedesche a rischio ridimensionamento per via delle diverse guerre commerciali in corso coprono tuttora 1 milione di posti di lavoro. Sono considerate la vera spina dorsale del Paese ed includono anche multinazionali quotate in borsa come la Thyssenkrupp, la Siemens o l’azienda Gea, che tra i vari ambiti si occupa principalmente della distribuzione di generi alimentari.

Così è il declino tedesco, se vi pare. Gli aridi dati economici fin qui snocciolati rappresentano solo la punta dell’iceberg di un sistema, che ha costruito la sua “fortuna” (in realtà disgrazia) su un export che ora, a causa delle strategie poste in atto dai circoli dirigenti anglosassoni, sta per finire. E non abbiamo neppure parlato di quelle regioni orientali che, proprio mentre in questi giorni si stanno festeggiando i 30 anni della riunificazione, conoscono ancora tassi di povertà e disoccupazione più alti rispetto ai fratelli coltelli occidentali, mentre i salari medi di questi ultimi sono molto più alti rispetto ai primi. Ad ogni modo nella prossima puntata vedremo come la crisi economica tedesca, che questa volta al contrario di 30 anni fa interesserà quasi solo le regioni occidentali e non invece quelle orientali, rappresenterà anche il colpo di grazia per la SPD, il più antico partito socialdemocratico del mondo.

7 Risposte a “Il declino economico tedesco nei dettagli”

  1. Complimenti per l’ottimo articolo, che di fatto dimostra come al gigante tedesco i suoi piedi d’acciaio si stiano trasformando in argilla…
    Riguardo invece il settore bancario, i licenziamenti di personale riguardano l’intera architettura bancaria così come è stata sin d’ora concepita almeno in tutta Europa. Ora inizia, per tutti, la nuova fase di estrema digitalizzazione che prevede sportelli di fatto privi di presenza umana, ove si potrà fare tutte le operazioni possibili ( prelievi, versamenti, pagamenti, ecc.).
    Ad esempio a Trieste, dove vive e studia mia figlia, la sua filiale è già così strutturata, tutto automatizzato. C’è soltanto all’interno ( perchè le macchinette sono antistanti l’ingresso) un umano appollaiato sullo sgabello nel caso un cliente desideri info su mutui o prestiti vari.
    in sostanza nell’intero settore bancario, d’ora in poi ci sarà una vera e propria strage di posti di lavoro, in Germania come in tutta Europa, è il progresso bellezza!

  2. “e’ il progresso bellezza” un paio di ciufoli.
    La Germania ha sempre reagito con estrema compattezza, lentezza e ottusità, riccorrendo a sussidi/formazione/leggi/leggine/specifiche/accordi, una burocrazia tra il sovietico e il regno terro-sabaudo.
    Voglio proprio vedere come si comporteranno ora, sbattendo il culo contro giganti tipo Google/Amazon/Dazi USA/Cina/India e le inculate tipo polonia/est europa, che da bravi opportunisti non hanno ancora adottato l’euro, pur essendo nell’euro.
    E non prendono (per carità, giustamente!!) neanche un profugo.

    Il risultato di tutta questa merda di Europa, ingegnerizzata da un mix di terroni, sovietici, turboliberisti, utili idioti, figli di puttana e patetici cialtroni, sarò la riduzione in merda simil-sud americana dell’europa.

  3. Mi sa che tutti noi italiani stiamo diventando i terroni d’Europa. Poi ci sono sempre dei terroni da biasimare. In fondo anche i sudtirolesi lo sono in confronto ad Innsbrück. 🙂

  4. Complimenti per l’ottimo articolo e anche per la sua apparizione a “ povera patria “ . Purtroppo ancora pochi italiani, hanno una visione realistica di cosa sia la vita in Germania. Mi auguro che il suo ottimo blog, raggiunga sempre più utenti.

  5. Buongiorno Attilio,

    sono io a ringraziarla per i suoi complimenti! Eh sì, molti italiani elogiano la Germania e la Merkel e sono gli stessi che non parlano una parola di tedesco. Ho forse detto Travaglio?

  6. Sì certo, è un discorso generale. Diciamo però che le 2 principali banche tedesche, la Deutsche e la Commerz, sono in crisi profonda da 5 anni.

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