Gibt es noch Freiheit in Deutschland?

IMG_20181129_141815763_HDRAvrebbe dovuto essere una grande festa, l’ennesima prova di libertà in una metropoli internazionale che almeno dallo smantellamento del Muro viene definita dalla critica come la più alternativa d’Europa, ed invece all’ultimo è saltato tutto. La Fondazione Friedrich – Ebert – Stiftung, politicamente vicina al partito socialdemocratico tedesco (SPD), avrebbe dovuto premiare l’organizzazione americana Women’s March“ per il suo impegno nella tutela dei diritti umani con l’annuale premio ma cinque giorni prima della premiazione prevista a Berlino, con un semplice cinguettio su Twitter ha deciso di sospendere la cerimonia per la protesta di alcuni stipendiati ed ex membri. Per essere più precisi la protesta è giunta soprattutto da alcuni riceventi borse di studio, che la fondazione mette a disposizione ogni anno per i dottorandi o ricercatori considerati meritevoli di sostegno economico per l’interesse scientifico delle loro tesi, i quali hanno accusato alcune delle organizzatrici delle marce pubbliche a favore delle donne americane di aver diffuso teorie antisemite. Apriti cielo. In un paese come la Germania, dove la storia del Novecento viene ancora strumentalizzata a fini politici, un semplice sospetto di odio antiebraico può costare la carriera e causare pubblico ludibrio. Come non dimenticare per esempio il licenziamento in tronco di un vignettista di 85 anni che si era permesso di disegnare l’attuale Primo Ministro israeliano che ballava sul palco stringendo su una mano il microfono e sull’altra un missile con la stella di Davide, simbolo dell’ebraismo ma che in Germania evoca ricordi inquietanti. Il contesto era quello del noto concorso musicale dell’Eurovision, tenutosi in marzo e che aveva visto la vittoria di una cantante israeliana. Il vignettista Dieter Hanitzsch, che aveva osato criticare Israele con le armi della satira, aveva evidentemente voluto giocare col fuoco e non era bastata la sua veneranda età oltre che i decenni passati al banco da lavoro per far desistere il giornale bavarese della Süddeutsche Zeitung a concludere il rapporto di lavoro con lui. Der deutsche Forattini musste raus, insomma.

Sono perciò temi sempre aperti per un paese che proprio in questi giorni sta commemorando gli 80 anni della Notte dei Cristalli, attuata in onore del giorno di nascita di Lutero per chi non lo sapesse. Ma torniamo al premio per i diritti umani ritirato precipitosamente da una fondazione vicina al più antico partito socialdemocratico d’Europa. Entrando in merito alle critiche dei “borsisti”, i quali si sono autodefiniti come gravitanti intorno ad un circolo di lavoro intitolato Critica dell’antisemitismo e degli studi ebraici”, essi si sono soffermati in special modo sulla figura di una delle organizzatrici del movimento femminista americano, una tale Linda Sorsour. Quest’ultima è stata accusata di tutti i mali possibili immaginabili in fatto di antisemitismo; si sono citate sue dichiarazioni, sempre beninteso da lei espletate su Twitter, nella quale avrebbe scritto che essere femminista sarebbe incompatibile con l’essere sionisti, comparando poi quest’ultimi alla stregua dei nazisti. Inoltre farebbe tuttora parte di un gruppo internazionale denominato BDS che da anni invita al boicottaggio di beni e merci provenienti da Israele, poichè considerate prodotti nei territori palestinesi occupati ed anche per danneggiare l’economia del paese “oppressore”. Insomma l’invito a non comprare “presso gli ebrei” viene paragonato, secondo l’ottica di diversi parlamentati SPD come Christian Lange, come un simbolo di un linguaggio d’odio. Si citano poi altre esternazioni della Signora Sorsour, nella quale avrebbe incolpato gli ebrei “bevitori di sangue” dell’uccisione di neri in America da parte di forze della polizia ed al tempo stesso avrebbe aggiunto che gli “ebrei influenti sono suoi nemici”. Last but non least avrebbe osato definire Israele come uno “Stato d’apartheid finanziato con le tasse americane”. Insomma è un quadro non proprio idilliaco, per usare un generoso eufemismo, e c’è chi come l’ex parlamentare SPD oltre che ex Presidente della Società israelo – tedesca Reinhold Robbe che si chiede come sia possibile che così gravi accuse di antisemitismo siano emerse appena ora e non siano state previamente vagliate dalla Commissione apposita, che ha appunto il delicato compito di decidere a chi assegnare l’annuale premio sui diritti umani.

Nel frattempo la Fondazione Ebert ha sospeso la premiazione, prendendosi dei giorni di tempo per decidere se assegnare o meno il premio alle femministe americane, che tanta ed invana speranza avevano suscitato nei media mainstream convinti che avrebbero potuto assestare un duro colpo a Trump. Tuttavia quando organi politici (o politicizzati) tedeschi accusano un’associazione di antisemitismo, dovrebbero forse riflettere che a rischiare di finire sotto l’infame marchio ci potrebbero finire personaggi dei più inaspettati. Per esempio l’ex Presidente americano (democratico) Jimmy Carter, che nel 1978 fu fautore degli storici Accordi di Pace di Camp David tra l’Egitto di Sadat e l’Israele di Begin. Nello specifico l’Egitto, primo paese arabo a compiere questo passo tanto che venne cacciato da una furiosa Lega Araba, si decise a riconoscere la legittima esistenza di Israele, ottenendo in cambio il ritiro delle sue truppe dalla penisola del Sinai. Anche per questa mediazione tra due nemici che fino a quel momento si odiavano a morte, oltre che per i suoi decenni di instancabili sforzi per trovare soluzioni pacifiche ai conflitti internazionali, nel 2002 l’ex Presidente vinse il Premio Nobel per la Pace. Quattro anni dopo Carter stesso scrisse un libro dall’emblematico titolo “Palestine: Peace Not Apartheid”, nel quale accusava senza giri di parole Israele di adottare una politica di segregazione contro i palestinesi ben più grave di quella portata avanti in passato dal Sudafrica contro la minoranza nera. Durante un’intervista al canale americano ABC ebbe a dichiarare letteralmente che: “Quando Israele occupa nel profondo il territorio della West Bank e collega i 200 o circa insediamenti l’uno con l’altro attraverso una strada, proibendo ai palestinesi di usare o perfino anche solo di attraversare quella medesima strada, questo significa perpetrare dei casi di apartheid anche peggiori di quanto non abbiamo assistito in Sud Africa“. Come comprensibile, il libro e l’intervista suscitarono un certo clamore in Israele, tanto che anche un organo progressista interno come l’Haaretz, che riportò queste frasi, si scandalizzò per le sue esternazioni.

Ma ad essere accusato di antisemitismo potrebbe caderci perfino l’ebreo italiano Moni Ovadia, che in un’intervista rilasciata il maggio di quest’anno ammette di aver dovuto lasciare la comunità ebraica a causa del suo sostegno alle lotte del popolo palestinese. In casi come questi basta un copia ed incolla per chiarire come non mai l’opinione del celebre scrittore e attore teatrale ebraico (da sempre impegnato politicamente con una certa sinistra italiana nda), il quale aveva affermato che: “Spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, definita capitale di Israele dal presidente americano Trump, è un atto decisamente colonialista di fronte al quale l’Italia dimostra tutta la sua pavidità. A denunciare ciò che sta accadendo, parlando di apartheid e pulizia etnica ci sono solo pochi coraggiosi movimenti e associazioni per i diritti umani, come B’Tselem o Breaking the Silence, giornalisti come Gideon Levy e il movimento internazionale Boycott, Divestment and Sanctions” che Moni Ovadia sostiene apertamente.

Come si vede, il dibattito con inevitabili polemiche in altri paesi è più vivo che mai. In Germania invece, per le note vicende storiche conosciute da tutti, si fa ancora fatica a criticare Israele senza abbinare automaticamente queste critiche all’antisemitismo. Si sarebbero potuti citare altri dati incontrovertibili, come per esempio la lunghezza del muro israeliano che penetra i territori palestinesi, in confronto al quale il muro di Berlino non è che una bazzecola. Infatti la lunghezza di 155 km di quest’ultimo viene di gran lunga superata dalla cosiddetta barriera di protezione israeliana, già nel 2004 definita illegale da una sentenza della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja, che arriva a 723 km. Senza contare che l’infame muro di Berlino, il cui smantellamento viene ancora oggi celebrato come simbolo della ritrovata libertà occidentale che ha trionfato sul male comunista, arrivava a 3 metri di altezza mentre il summenzionato muro moderno di divisione lo supera a 8. Insomma ce ne sarebbe di cui parlare ma lo spazio non ci basta. Tuttavia possiamo concludere prendendo atto di come la lotta all’antisemitismo di ritorno in Germania (proveniente invero dalle minoranze musulmane) spesso collida con altri diritti non meno importanti, come quelli della libertà  d’opinione e perfino di satira. Sarebbe importante perlomeno aprire un dibattito su fatti reali ed attuali, come l’occupazione israeliana in Palestina, cosa che purtroppo non sempre è evidentemente possibile, nemmeno nell’alternativa Berlino.

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